Turgenev a Trieste




Durante le lunghe ore di lettura da me riservate alle vacanze natalizie, mi sono proposta di leggere tutti i racconti e tutti i romanzi dello scrittore russo Ivan Turgenev (1818-1883). Forse “tutti” è esagerato, ma di sicuro quelli più noti e particolarmente riusciti. Se Turgenev è lodevole e ispirato romanziere, come novelliere lo è ad un grado ancora superiore: il taglio e la misura del racconto infatti si addicono idealmente alla sua figura umana ed artistica.

Ciò che mi ha colpito leggendo un suo breve profilo biografico, è stata la sua vocazione al viaggio che lo ha sospinto nelle più diverse contrade d’Europa, da Parigi a Londra, da Vienna a Berlino, da Roma a Trieste. Sì, proprio Trieste. Questa semplice e apparentemente secondaria notizia mi ha colpito in modo particolare: possibile che un genio come Turgenev, abituato ai più grandi e celebri salotti europei, nato e vissuto a lungo nella Russia impervia degli zar e degli schiavi della gleba, sia arrivato fino a noi?

Leggendo i suoi racconti, questo mio stupore un po’ campanilistico si è accresciuto: quanto più mi si svelava il talento e la grandezza di quest’uomo errante e inquieto, tanto più cresceva in me un sottile compiacimento per la singolare circostanza della sua breve permanenza nella nostra città. Come gli sarà sembrata? Che cosa avrà pensato dei suoi abitanti e ospiti? Dove avrà passeggiato? Con quale illustre nostro concittadino si sarà intrattenuto a discutere di arte, politica e riforme agrarie? Forse farò qualche piccola ricerca, ma per ora mi accontento di sapere che questo grande uomo e scrittore abbia passeggiato per le stesse vie da me calcate e frequentate. Certo, mi si potrà obiettare, ma anche Stendhal è stato a Trieste, anche Proust nella sua inarrivabile “Recherche” nomina la nostra città nella sezione della “Fuggitiva” parlando di un viaggio di Albertine. Eppure Turgenev ha per me un fascino diverso, forse perché l’ho scoperto appena adesso e finalmente mi sono decisa a leggere il suo “Padri e figli”, a lungo evitato come un’opera didascalica e pedagogica, mentre è un autentico capolavoro, universale e senza tempo.

La vita e la tempra umana e artistica di questo figlio di una famiglia antica ed agiata, oppresso da una madre crudele, tenuto sul filo della passione da una ricca ed emancipata  cantante (Pauline-Garcia-Viardot) fino alla morte, quest’anima ferita e profonda, vasta e nobile, ci ha lasciato una delle testimonianze più forti della terribile desolazione di una vita senza Dio. Turgenev fu amico di Zola, Flaubert, Maupassant, condivise gli assunti del romanzo naturalistico  di cui essi furono maestri, ne respirò e assimilò la visione dell’esistenza vista come una poderosa e oscura macchina che sospinge l’uomo e spesso lo schiaccia. Nessuna speranza, nessuno spiraglio di luce, a parte una sensibilità squisita e delicata per la bellezza della natura, sebbene anch’essa turbata da un pessimismo senza scampo.

Perché anche la natura è crudele per Turgenev, specie quella delle steppe russe, così lussureggianti a volte, con i loro boschi, i loro cespugli di nocciole, lamponi, fragole selvatiche, fiori stupendi che nei primi giorni di primavera accendono il verde delle selve di mille colori vividi e smaltati. Ma anche questa bellezza, in cui Turgenev spesso si perde e si stordisce come tra le braccia di un amante, è crudele e lontana. Il suo splendore maestoso è quello di una colossale statua di marmo e pietre preziose, venata d’oro e d’argento, matrigna e non madre, come nel nostro Leopardi. Essa vive, pulsa, fiorisce, si dissecca e poi rivive ancora, in un ciclo senza fine e senza ragione, indifferente all’uomo che soffre, si interroga, cerca, si smarrisce e in lei vanamente cerca consolazione.

Ma perché indugiare in una visione così sterile, certo bella e a suo modo tinta di poesia, ma altrettanto raggelante e disperante? C’entrano forse le delusioni della vita, le brutte esperienze, la madre crudele, l’amante eternamente fuggitiva? E come è possibile che a nutrire questa triste percezione sia un uomo capace di cogliere e descrivere con tanta finezza e sensibilità la bellezza del paesaggio, delle stagioni, dei fiori, degli animali, delle albe e dei tramonti? E il fascino inesprimibile delle persone, specie delle creature femminili, suo pungolo, suo fantasma persecutore, anche quando l’amore cresce su fondamenti che promettono bene? Non vi è una grande storia di passione che si concluda serenamente con un’unione stabile. No, ogni amore, l’amore così come lo conosce Turgenev, è smarrimento, lotta feroce tra ragione e cuore, abisso senza fondo che può solo inghiottirti e farti a pezzi. Per questo i suoi racconti d’amore – la maggior parte – si concludono con una brusca e dolorosissima separazione. Solo così l’incanto romantico che lega l’uomo e la donna nella primavera dei loro cuori può sopravvivere al logorio dell’abitudine e degli anni. Ma a quale prezzo?

Tuttavia in questo mare di relitti e di sponde ora desolate ora indorate dall’aurora e verdeggianti di timida speranza, qua e là galleggiano leggeri dei frammenti luccicanti, presagi di qualcosa o di Qualcuno che si nasconde. Le sue orme brillano ma è facile che un vento anche lieve le copra di polvere e sabbia. Ma neanche questo recide del tutto, sebbene in un alfiere del disincanto come Turgenev, l’eco di una speranza e di una felice promessa che stormiscono leggere tra le fronde buie e pesanti della vita. Come succede in “Padri e figli” che si conclude con queste parole: «Per quanto appassionato e ribelle e peccatore sia il cuore celato nella tomba, i fiori che la coprono guardano sereni coi loro occhi innocenti, e non ci parlano soltanto del riposo eterno, del riposo della natura “indifferente”; ci parlano anche dell’eterna riconciliazione… e di un riposo eterno».

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