Le stagioni secondo Roberto Pagan




Sulla versione cartacea di Vita Nuova abbiamo iniziato un percorso di Avvento attraverso alcune miniature che rappresentano gli episodi che preludono alla Notte Santa. Sfogliando alcuni testi dedicati alla miniatura, ho scoperto un libricino dal titolo “Le belle ore del Duca di Berry” (reperibile presso la Biblioteca civica “Hortis”), in cui alcune miniature eseguite nel XV secolo dai fratelli Limbourg, fiamminghi di nascita, sono accompagnate da una breve silloge di poesie del triestino Roberto Pagan (1934), scrittore, critico e poeta di grande prestigio e talento.

Il fascino delle immagini e delle liriche ci porta in un mondo lontano, da cui possiamo trarre alcuni fruttuosi suggerimenti. Le miniature sono dedicate ai 12 mesi dell’anno e fanno parte di un genere molto amato nel Medioevo e nel Rinascimento: la rappresentazione dei mesi, delle stagioni, del lavoro ciclico dell’uomo e degli svaghi dei nobili.

Emerge una concezione della vita quasi del tutto dimenticata, filtrata attraverso immagini, colori e simboli.

L’uomo è inserito un cosmo ordinato e armonico, in cui il succedersi dei mesi scandisce un tempo ciclico a cui l’uomo adegua il proprio operare, con costanza, fortezza e soprattutto fiducia nella divina provvidenza. Le immagini delle “Belle ore” che raffigurano gente umile e semplice che lavora la terra esprimono la speciale relazione tra l’uomo e Dio, signore del tempo e della storia. Ogni quadro miniato infatti, che già nella forma geometrica rappresenta il mondo terreno, è sormontato dalla cupola del cielo, di un profondo blu lapislazzulo, simbolo delle cose invisibili e della signoria di Dio sul mondo. La cupola è suddivisa in due semicerchi: sul comune sfondo blu, l’arco esterno è istoriato con il firmamento e con le costellazioni del mese in color oro, mentre il semicerchio interno, iscritto nel primo, racchiude un cocchio trainato da due cavalli sotto il fuoco radiante del sole rappresentato in diverse inclinazioni a seconda del momento dell’anno. Nel quadrato, simbolo del creato, contrapposto al cielo regno dell’increato, trovano posto alternativamente gli svaghi opulenti e fastosi dei nobili e i diversi lavori anche pesanti dei contadini.

La vivacità dei colori, la minuziosa cura del disegno, l’attenzione alla postura e alle espressioni di ogni singola figura, creano una rappresentazione insieme realistica e stilizzata, in un comune tratto di eleganza finissima.

Dall’insieme, dall’accostamento delle icone miniate e dei versi di Pagan che cercano di catturare l’eco e il profumo di questi tempi lontani e ormai trascorsi, sprigionano una fragranza vivace, un fuoco caldo ed amico, un silenzio profondo, specie per i mesi dell’autunno e dell’inverno. Le piccole figure umane che camminano con passo paziente e tranquillo sulla neve, che tagliano la legna, che arano e seminano i campi sono colte e fissate sempre in una gestualità pacata e fidente, di amore e dedizione per il lavoro, vissuto come un dono di Dio e non come un inutile e sgradevole fatica. Si respira un modo di vivere e operare che in parte abbiamo perduto. I mesi e le stagioni ormai si confondono, il lavoro umano ha perduto il suo contatto con la natura e le sue preziose risorse, dono di Dio. Nel dolce svago delle corti l’amor cortese tra dame e cavalieri e l’esercizio della virtù rappresentano un anelito spirituale che affranca l’ozio dall’imbarbarimento moderno. Non vi è più, oggi, quella bellezza ideale che muoveva gli uomini a pensare e ad agire in conformità alla legge divina, una bellezza che da queste miniature ci raggiunge nel nostro sbiadito presente, facendo vibrare in noi le corde più malinconiche della nostalgia.

Il cielo era sempre presente, con i suoi astri, il suo abisso blu profondo in cui si sapeva con certezza che Dio era presente e da lassù custodiva e vegliava la vita dei poveri e dei ricchi, dei contadini e dei nobili.

Oggi al quadro della nostra esistenza terrena, spesso vissuta con fatica e disincanto, manca la cupola del cielo di queste miniature meravigliose. Essa era sempre presente e nessuno poteva neanche immaginare che così non fosse. Senza la volta celeste preziosamente miniata in argento e oro il riquadro della terra non ha più alcun senso o bellezza. È solo un blocco di pietra calcinata sotto un sole rovente e malato. E ancora più triste è pensare a volte che gli spiragli di questa armonia e pienezza sono sempre più rari nel presente e che per ritrovarli e assaporarli si sia costretti ad auto-invitarsi al convito di questi uomini così lontani e diversi. Uomini che hanno lasciato nelle più diverse espressioni e linguaggi, spirituali o pratici, il segno di un’arte del vivere in cui il cielo si inchinava ogni giorno sulla terra e la terra ogni giorno rispondeva al cielo, o almeno tentava di farlo, con gratitudine e meraviglia.

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