Germania: Chiese distrutte, miniere da costruire




Nei tempi confusi che stiamo attraversando può accadere di tutto, persino che a difendere una storica Chiesa da una demolizione scendano in piazza non chissà quali esponenti del cattolicesimo militante ma gli attivisti dell’ecologismo più radicale…quelli di Greenpeace. E’ quello che è accaduto nella località di Immerath, nel Nord della Germania, dove la Chiesa di san Lamberto è stata buttata giù per costruire delle nuove miniere di carbone, su ordine delle Autorità locali. “Chi distrugge la cultura, distrugge anche gli esseri umani. Stop alle miniere!”, così recitavano i grandi cartelli innalzati invano dai manifestanti verdi davanti il luogo di culto. Certo, non ci facciamo illusioni. Se al posto della Chiesa ci fosse stato un centro sportivo o uno stadio di calcio gli attivisti di Greenpeace si sarebbero lamentati lo stesso, magari con altri cartelli, ma certamente con lo stesso vigore perché a loro naturalmente interessava non tanto difendere l’esistenza del luogo di culto religioso quanto impedire la costruzione delle inquinanti e anti-ecologiche miniere di carbone, su questo non ci piove. Però l’episodio tedesco, nella sua estrema sinteticità, suggerisce diverse considerazioni utili anche per quanto riguarda la Dottrina sociale della Chiesa. La prima è che – qui concordemente con quanto sostenevano gli ecologisti in piazza a Immerath – la distruzione di una Chiesa, quali che ne siano le ragioni per cui viene portata avanti, è sempre una perdita anche culturale perché una Chiesa è sempre un segno della continuità della trasmissione della memoria spirituale tra le generazioni di un luogo e anche il simbolo storico-architettonico che rappresenta il legame identitario di una comunità con un territorio. Questo è vero. Però non è la considerazione in assoluto più importante che dovrebbe venire subito in mente in queste occasioni perché prima ancora dovrebbe essere detto chiaramente – diversamente da quanto fatto qui da Greenpeace – che prima ancora di essere un luogo culturale e un elemento storico di una civiltà (ancorchè, ripetiamo, sia tutto verissimo) una Chiesa non dovrebbe mai essere distrutta per una semplicissima e più primaria ragione: perché non appartiene agli uomini, ma a Dio.
La Chiesa è la dimora di Dio ed è – letteralmente – di Dio. Indica Chi veglia sugli uomini e le donne di quel luogo e a chi questi ultimo rivolgono la loro adorazione e la loro lode. E’ per questo che in passato i fedeli volevano essere sepolti nella loro Chiesa: perché sentivano istintivamente che quello era il luogo più vicino all’Onnipotente che si potesse trovare sulla terra. Ancora, la Chiesa – in quanto tempio speciale e prediletto del divino – richiama la benevolenza e le attenzioni speciali del Cielo che protegge sempre quanti Lo onorano e Lo benedicono. E poi i primi tre Comandamenti del Decalogo fanno riferimento proprio alla Signoria di Dio da cui origina e deriva tutto il resto: volete che la Casa per eccellenza di Dio sulla terra non vi abbia nulla a che fare? Ecco, per tutti questi motivi (ma molti altri ancora se ne potrebbero elencare) quella Chiesa non andava toccata, né sfiorata, in alcun modo. Le altre ragioni per così dire ‘culturali’, sono certamente veritiere ma – come si comprende – non proprio le primissime in ordine di importanza. Da ultimo, l’episodio dei giorni scorsi dimostra, nella sua fotografica simbolicità, anche un’altra cosa, cioè il peccato originale tipico dell’uomo della modernità che si auto-determina ormai non solo prescindendo da Dio ma qui anche direttamente contro Dio, giacché buttare giù altare e tabernacolo non è mai un’azione neutrale, evidentemente. Chi ha ordinato la distruzione della Chiesa per farvi delle miniere pensa infatti allo sviluppo umano in senso tipicamente materialistico: sostiene cioè che, pragmaticamente, serve più carbone per fare andare avanti le industrie e quindi il lavoro del luogo e siccome la miniera ‘produce’ e la Chiesa non produce nulla ecco fatta la semplice sostituzione di ‘un’attività’ con un’altra. E’ la concezione assurda di chi intende il progresso non in senso autentico – come suggerisce il Compendio di Dottrina Sociale – ma in senso ideologico, stimando solo ciò che si vede e di cui c’è bisogno materialmente. Ma il progresso vero non è, né può essere mai questo, perché esclude programmaticamente almeno altre due dimensioni fondamentali proprie dell’essere umano: quella spirituale e quella morale. Venti secoli dopo Cristo ancora non si capisce che la felicità delle persone non è mai frutto di qualcosa di specifico da possedere o da avere ma è il risultato di una vita piena in cui il cuore umano si sente realmente appagato e attribuisce ad ogni cosa il suo giusto valore, secondo il piano di Dio che tutto ha creato e disposto per la felicità vera dei suoi figli sulla terra. Tutte le encicliche sociali sono sempre partite da questo presupposto perché – da Rivelazione biblica – è un po’ come l’abc della costruzione dell’ordine terreno. Non l’avessero mai fatto. Dopo venti secoli siamo ancora a questo punto. Poi uno dice come mai i tanti discorsi sul futuro migliore del passato non convincono del tutto, in particolare i credenti. Già, chissà come mai.

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