Se Facebook vale più di Mozart. Steiner contro la sub-cultura




Stiamo attraversando un’epoca di “sub-cultura”, ovvero “una demolizione progressiva del linguaggio travolto dall’immagine, soprattutto da quella telematica. La lingua viene divorata dal minimalismo ossessivo dei codici elettronici, come dimostrano i messaggi sempre più compressi che si mandano i ragazzi sui cellulari”. Parola di George Steiner e, ancora una volta, il professore più poliglotta e ricercato della galassia mitteleuropea non le manda a dire. In una delle sue ultime interviste Steiner è tornato su quella che a suo avviso, ma non solo suo, è in assoluto la trasformazione più radicale dei nostri tempi, ovvero quella portata dalla rivoluzione digitale di massa. Una rivoluzione culturale da far apparire tutte quelle precedenti, al confronto, uno scherzo o poco più. La preoccupazione dello studioso è soprattutto rivolta verso le giovani generazioni che vede omologarsi l’una con l’altra in una corsa a precipizio verso il basso, a una rapidità impressionante. A chi come lui ha passato una vita intera a studiare la storia del linguaggio, e dei linguaggi, non sfugge l’arretramento che la globalizzazione digitale sta producendo in giro per l’Europa, a Est come a Ovest: si perdono rapidamente le peculiarità delle culture locali, si smarriscono le memorie, ma non vengono sostituite da alcunché se non dalla fluidità delle mode effimere dei nostri giorni. Soprattutto, è la cultura umanistica in senso proprio, cioè la cultura autentica, a perdere terreno di fronte all’avanzata seducente degli strumenti della tecnica. Quando Steiner era giovane un qualsiasi ragazzo in età universitaria o comunque laureato aveva un filosofo o un autore di riferimento, bianco, rosso o nero che fosse, e tutti pensavano che una adeguata visione del mondo, e quindi anche politica e culturale, presupponesse una ragionata lettura del pensiero e dello spirito. Oggi a stento si trova qualcuno in giro che possa dire altrettanto. La lettura di qualcosa di minimamente impegnativo è sempre più considerata estranea alla cultura pubblica di massa ed è anche per questo che la politica attraversa la crisi che attraversa: senza la cura della dimensione pre-politica la gestione della cosa pubblica decade a pura tecnica, come si constata in effetti ogni giorno che passa. Il problema principale, però, per Steiner è a monte: nel fatto stesso cioè che il patrimonio di educazione culturale classico (che oltre alla filosofia raccoglieva come noto la letteratura – prosa e poesia –, il teatro e naturalmente la musica) non è più visto come un passaggio obbligato per la cittadinanza intellettuale nella comunità civile per cui è possibile vedersi riconosciuti un consenso di massa – come vuole la logica liquida dei social network, con i suoi istintuali ‘follower’ e i suoi ‘like’, e come sta accadendo – senza avere magari mai letto né Dante, né contemplato Giotto o Bernini, né ascoltato Mozart. E’ la nascita dell’uomo nuovo, come infatti qualcuno sostiene, peraltro da letture valoriali diverse.
‘Nuovo’ però non nel senso di Marx, o di Nietzsche, giacché questo sarebbe ancora legato a una determinata storia del pensiero, per quanto criticata, sbagliata e criticabile, ma proprio ‘nuovo’ nel senso che il pensiero non c’è e le domande di sempre sui massimi sistemi appaiono – lo profetizzava già Ratzinger in tempi non sospetti – senza senso, per non dire bizzarre o assurde. E’ qui che la critica di Steiner si fa più sottile e insieme controversa: per lui il trionfo della tecnica tecnologica e dei suoi linguaggi – che influenzano poi i comportamenti, pubblici e privati – non sono una nuova cultura diversa da quella di un tempo passato, ma una non-cultura, propriamente parlando (‘sub-cultura’), che congeda non questo o quel filone di pensiero ideologicamente inteso ma tutta la storia del pensiero in quanto tale. Peggio ancora, il potere tecnocratico sta diffondendo parallelamente l’idea – di per sé, questa sì, insostenibile e assurda – che una cosa abbia valore in quanto ‘valga’, materialisticamente parlando, cioè abbia un mercato appetibile e dunque un prezzo. Ora, sarebbe facile constatare di getto che Platone o Dante non hanno un prezzo per il mercato odierno: non vendono bene, concretamente parlando. Ma questo forse vuol dire che non hanno valore? Se è coerente con le premesse di fondo da cui parte, il tecnocratico, a questo punto, risponde di ‘no’. Letteralmente, ‘non servono’. Non servono infatti alle borse, né ai mercati, né agli affari, né alle aziende. Che questa visione sia ridicola è ovvio, e che non serva per forza la Dottrina sociale della Chiesa per smontarla altrettanto. Ma il punto non è questo. Il punto è se questa visione delle cose sia maggioritaria o no nel mondo in cui viviamo. Perché se lo è, non la cultura di una elìte, ma l’intera civiltà dell’uomo come l’abbiamo conosciuta è sulla via del tramonto. Parola di un ebreo, libertino, agnostico e cosmopolita.

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