"La Passione di Erto" è un film documentario di Penelope Bortoluzzi. Al centro della storia è la Passione del Cristo, l’antico rituale che gli abitanti di Erto mettono in scena ogni Venerdì Santo secondo una tradizione che perdura da quattro secoli.

La Passione di Erto




È stato presentato a Gorizia negli spazi del Palazzo del Cinema “La Passione di Erto”, film documentario della regista Penelope Bortoluzzi che, già presentato con buon successo di critica e di pubblico al Festival del Film di Locarno e al Torino Film Festival, sarà in gara al prossimo Trento Film Festival.

Al centro della storia è la rappresentazione della Passione del Cristo, l’antico rituale che gli abitanti di Erto mettono in scena ogni Venerdì Santo secondo una tradizione che si tramanda di padre in figlio e che perdura ormai da quasi quattro secoli. All’autrice, che è veneziana di nascita ma vive e lavora a Parigi dove ha fondato la società di produzione Picofilms, abbiamo chiesto di raccontarci la storia di questo progetto che ha per più aspetti un’anima goriziana: il film infatti si avvale di materiali d’archivio, tra cui rari filmati girati negli anni ‘70 da Olivia Averso Pellis, che sono stati poi digitalizzati presso il laboratorio “La Camera Ottica” del DAMS di Gorizia.
«Ho voluto raccontare la storia di Erto attraverso due eventi che ne hanno scolpito la storia», racconta la Bortoluzzi, che nel 2008 ha ottenuto la Menzione Speciale al Festival dei Popoli con il suo primo film “Fondamenta delle Convertite” sul carcere femminile di Venezia. «Da una parte, la Passione del Venerdì Santo, un rito annuale, ciclico, che scandisce da secoli la vita di un paese e definisce l’identità di una comunità nel tempo; dall’altra, la catastrofe del Vajont, una tragedia senza precedenti che cambia tutto ciò che la precede, che accelera i processi di cambiamento di un’epoca e ne cristallizza le contraddizioni».

«Le prove della Rappresentazione, che si svolgono durante la Settimana Santa, sono un momento quasi magico, irreale; fin da subito ho capito che sarebbero state il filo conduttore del mio film», continua la regista. «Si ha l’impressione di assistere alla nascita del teatro: alcuni uomini si ritrovano di sera, dopo una giornata di lavoro, fra le mura spoglie di un municipio abbandonato e improvvisamente cominciano a declamare il Vangelo, si trasfigurano, diventano personaggi ed attori. Alcuni partecipanti hanno il loro ruolo da anni, altri addirittura da decenni; e tutti, quando erano piccoli, sognavano di partecipare alla Passione, giocavano con gli altri bambini a imitare il rito degli adulti, si costruivano croci in miniatura, declamavano le repliche del Vangelo a memoria, sognavano di essere Giuda o Cristo. La Passione, a Erto, è al contempo un rito e un gioco, un teatro sacro e profano; e negli anni ‘60 e ‘70 è stata anche una dichiarazione di indipendenza, una strategia di resistenza, un modo di affermare la propria identità che nessuno ha potuto soffocare».

Una delle caratteristiche principali del film riguarda l’utilizzo di materiale d’archivio, tra cui le immagini e il sonoro della Passione registrati nel 1974 durante la lavorazione del documentario “Croci sul Vajont” prodotto dalla Società Filologica Friulana. «Ho effettuato ricerche un po’ dappertutto in Italia, le immagini provengono da fonti molto varie», spiega la Bortoluzzi, che oltre alla regia ha curato anche la fotografia con Stefano Savona e il montaggio del film. «Ci sono estratti di cortometraggi cinematografici, di reportage televisivi, ma anche di filmati amatoriali e etnografici. I filmati sul Vajont, dal giorno dopo la tragedia fino a tutto il decennio successivo, sono memoria non solo dell’evento e delle sue conseguenze, ma anche dei volti e delle parole di persone che non sarebbero mai state filmati altrimenti. Ho cercato di non utilizzare mai queste immagini d’archivio in maniera illustrativa, aneddotica, bensì provando a montarle come una materia attuale quanto le riprese odierne, tentando di ricostruire spazi e durate anche là dove c’erano solo frammenti».
In questo modo “La Passione”, a partire dalla storia di un paesino incastonato tra le Alpi friulane, sviluppa una riflessione più generale sul dramma vissuto dalla sua popolazione. «Attraverso la relazione fra le immagini del passato e quelle del presente — conclude la regista — ho cercato di ricreare una genealogia dei volti e dei luoghi di una valle martoriata, ma anche di parlare di una storia universale: la scomparsa, a partire dagli anni ‘60, delle ultime comunità rimaste fino ad allora ai margini della Storia, il tramonto di un’intera civiltà e il passaggio traumatico alla modernità dei suoi sopravvissuti».

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