Fiabe alla Contrada: solo invenzioni per bambini?




La favola è un genere letterario duttile e dalle radici molto antiche, solitamente e in modo a volte sbrigativo ritenuto una forma espressiva destinata a un pubblico infantile. In realtà la fiaba, in quanto legata a contenuti molto profondi e a una forma di linguaggio simbolico, è capace di parlare sia ai grandi che ai più piccoli, a ciascuno secondo il personale grado di intelligenza, esperienza e cultura. Gli adulti vi possono trovare illuminazioni e risposte sulle grandi e piccole questioni della vita, i bambini i primi orientamenti in un mondo complesso e ramificato.

Anche quest’anno, per la stagione del 2015-2016, il Teatro Ragazzi della Contrada propone un ciclo di spettacoli dal titolo “Ti racconto una fiaba” (per informazioni visitare il sito www.contradateatroragazzi.it). Il repertorio scelto combina il patrimonio favolistico tradizionale con alcune sollecitazioni moderne.

Vasto, quasi immenso, è l’universo della fiaba. Il titolo di una raccolta indiana di racconti immaginifici può ben riassumere la geografia straordinaria di questo continente dai confini in perenne espansione: “L’oceano dei fiumi dei racconti”, poema narrativo del Kashmir scritto dal brahmano Somadeva nell’XI secolo. Il repertorio di storie, intrighi, personaggi e congegni magici e fatati qui intrecciato in una narrazione elegante e preziosa, è un’ammaliante raffigurazione dell’eterno scontro tra le forze del male e del bene, oltre che un affresco vivace della vita umana colta nei suoi splendori, nelle sue linfe e nella sua sterminata ricchezza di possibilità, di avventure e di conoscenze.

Sulla stessa linea, per rimanere nella tradizione orientale, sfilano altre raccolte fiabesche molto antiche che combinano gli elementi più squisitamente fantastici — terre incognite, creature meravigliose e non terrene, talismani e castelli stregati — con un sottofondo religioso e spirituale. Pensiamo ai “Racconti della pioggia di primavera” e ai “Racconti di pioggia e di luna” del giapponese Ueda Akinari, vissuto alla fine del XVII secolo, poetico e delicatissimo cantore di un mondo sospeso tra realtà e sogno, tra universi intangibili, ove l’attimo è eterno, e scorci di esistenza quotidiana che tengono sempre aperte le porte all’irruzione dello straordinario. Il repertorio favolistico proprio al mondo giapponese ancora intatto nel suo splendido isolamento viene qui ripreso e intessuto con i fili del credo shintoista, in particolare con la religione degli avi, gli antenati divenuti spiriti e che hanno un doppio volto, buono o cattivo: possono infatti proteggere la loro casa e la loro stirpe, oppure perseguitare i loro nemici ancora nel mondo, a seconda che abbiano portato con sé un cuore purificato e libero dagli inganni terreni o un cuore ancora avvelenato dai livori e dalla sete di vendetta legati ai loro istinti inferiori ancora indomati. Dai loro regni di nebbie oltre le montagne più scoscese, a fianco di divinità benevole o maligne, continuano a visitare i viventi e a interagire con loro, nel bene e nel male, con maschere angeliche o demoniache.

Alla stessa temperie, sia pure in modo variato per la diversa storia e cultura che li sostengono e li alimentano, appartengono gli splendidi “Racconti fantastici di Liao” scritti da Pu Songling, un letterato e scrittore vissuto in Cina tra il XVII e il XVIII secolo. Il motivo dominante dell’ampio e multicolore ventaglio di novelle è anche qui rappresentato dal continuo sconfinamento del mondo dei vivi nel regno dei morti, con la conseguente irruzione di creature magiche e fantastiche nella realtà ordinaria abitata da ricchi mercanti e feudatari come da umili e poverissimi contadini e pescatori. Di storia in storia, nel variare della fabula sempre trapunta di nuove soluzioni narrative e di risvolti inattesi, ci si imbatte, come in un refrain via via cantato con inflessioni di voce mai monotone o ripetute, in due miti dominanti la cultura e l’immaginazione favolistiche dell’Oriente nipponico e cinese: il tema della volpe, una creatura stregata che si nasconde in una forma animale e che assume sembianze umane ora per vivere con gli uomini un’esistenza normale e tranquilla, ora per vendicarsi di qualche torto subito; e il tema dei defunti che possono liberamente tornare nel mondo e proseguire la loro vita bruscamente interrotta. Da questi due motivi derivano gli innumerevoli splendidi intermezzi narrativi che rappresentano intere famiglie di fantasmi o di volpi che prendono possesso di una casa abbandonata e vi conducono una vita di feste e banchetti. Solitamente questa vita viene interrotta dall’arrivo di una persona viva che può scegliere di unirsi all’allegra e vivace compagnia di esseri soprannaturali oppure allontanarsi conservando rigorosamente il segreto sugli eventi vissuti.

A questo “oceano dei fiumi dei racconti” appartiene a pieno titolo quella impareggiabile raccolta di novelle che è il libro “Le mille e una notte”, una specie di gigantesco albero dalle fronde in continua crescita e fioritura, alla cui ombra fresca e avvolgente si sono riparati e ricreati innumerevoli lettori occidentali di tutte le età. Tra l’XI e il XII secolo, periodo in cui inizia la prodigiosa opera di gemmazione di questo insuperato capolavoro della narrazione fantastica, vengono sbalzate e superbamente incastonate altre due pietre preziose del tesoro immaginifico della favolistica medio-orientale: “Le sette principesse” di Nezami di Ganjè e “Il fruscio delle ali di Gabriele” di Suhrawardi, due poemi in prosa dal sottofondo esoterico che impiegano i motivi classici della fiaba per esprimere verità e intuizioni sapienziali.

Passando dall’Oriente all’Occidente, entriamo in un terreno più famigliare e noto. La storia europea della favola infatti, iniziata nel mondo greco-latino con i “favolelli” moralistici di Esopo e Fedro poi ripresi nel ‘600 francese da La Fontaine, conosce i suoi momenti più creativi e più alti in Francia all’epoca del Re Sole con le deliziose storie inventate, su un repertorio già esistente, da Charles Perrault e da Madame d’Aulnoy: qui la fiaba si fa specchio a volte lezioso dei gusti eleganti della corte e cerca di soddisfare i desideri di svago e le incantevoli chimere di aristocratici amanti del bello e del fasto. I protagonisti di queste favole sono fate, principesse, principi, maghi, nani, animali parlanti e comuni fanciulle destinate, dopo prove ardue e crudeli, a diventare regine.

La grande stagione europea della fiaba è comunemente ritenuta la verdeggiante primavera romantica ottocentesca che, soprattutto con i fratelli Wilhelm Grimm (1786-1859) e Jacob Grimm (1785-1863) — grandi filologi e linguisti tedeschi fondatori della “germanistica” —, assegna alla tradizione favolistica orale del popolo un ruolo cardine nella costruzione dell’identità e dell’unità di una nazione. Per questo motivo i due eruditi fratelli spesero tutta la loro vita a raccogliere e trascrivere le storie fantastiche tramandate dal popolo di generazione in generazione, nel corso di quelle veglie serali che vedevano le famiglie dei poveri raccolte intorno al focolare a raccontarsi storie incredibili e spaventose con cui evadere dalle fatiche e dagli affanni della vita.

La mitizzazione dell’Io e delle sue facoltà creative e intuitive conduce in questo periodo anche la fiaba nella direzione di una libera inventiva che, conservando qua e là singoli elementi corali della tradizione fantastica tramandata oralmente e di matrice popolare, li rielabora in una forma del tutto originale e personale. Pensiamo alle fiabe del tedesco E.T.A. Hoffmann (1776-1822) e a quelle del danese Hans Christian Andersen (1805-1875), solo per citare alcuni degli autori più celebri e ispirati.

Che cosa ha cercato l’uomo in queste avventure sempre sospese sul versante che separa il visibile dall’invisibile, la vita dalla morte, i viventi dai fantasmi, gli uomini con le loro limitate capacità dagli esseri magici dotati di facoltà prodigiose, il bene dal male, l’ottusa quotidianità dalle distese illimitate dello straordinario ove draghi, gnomi e fate proteggono tesori mai sfiorati dalla corruzione e dal lavoro distruttivo del tempo? Una prima rudimentale risposta è che gli uomini di ogni tempo e latitudine hanno trovato nella fiaba un immediato e facile appagamento al loro desiderio di uscire dai propri limiti, di vedere altre realtà racchiuse dentro l’armatura pesante e ben sigillata della realtà monotona di tutti i giorni. Un assaggio infantile ma pur sempre profondo e appagante di qualcosa che va oltre l’ordinario scorrere del tempo e oltre il dispiegarsi di uno spazio del tutto esplorato e spiegato, fin troppo noto nelle sue leggi e nella sua ciclica ripetizione di eventi, stagioni e orizzonti.

La favola trascina l’adulto e il bambino al di sopra di tutto ciò che vedono e conoscono con i sensi, lascia loro immaginare l’esistenza di un altro ordine, o di più ordini, di realtà ove non valgono le regole chiuse e soffocanti del già vissuto, del già sperimentato. Nella favola i simboli e i miti incarnano le leggi profonde che regolano la vita, le domande che già il bambino pone a se stesso, i dissidi e le ferite suscitati dal duello tra la luce e il buio, gli aneliti tesi a svelare l’intimo delle cose e a liberare il mondo dal suo carapace di pietra. La fiaba sgretola, con la grazia e insieme con la potenza a tratti feroce delle sue invenzioni meravigliose e terribili, questo mantello di roccia che imprigiona la vita, dischiudendo gli anfratti nascosti ove regnano creature di luce, di bellezza e di bontà che trattengono le creature della notte dal violare e avvelenare il mondo degli uomini. Si tratta di una prima prefigurazione del percorso spirituale di elevazione e di conoscenza a cui prima o poi ogni creatura è chiamata: un percorso che insegna anche a noi adulti a non chiuderci in una visione troppo limitata e materiale della vita.

Attraverso la favola i più piccoli imparano poco a poco ad orientarsi nella vita e nelle sue prove, a conoscerne le contraddizioni e le tensioni, a confidare nel bene come sola forza in grado di rischiarare l’esistenza e di liberarla dalla minaccia delle ombre. È la prima grande impresa, dai risvolti quasi cavallereschi e nobili, che un bambino o un fanciullo si trovano ad affrontare con curiosità ed entusiasmo, per scoprire che non si è mai finito di scoprire né di cercare, che la vita è un’avventura magnifica e che l’uomo possiede infinite risorse per trarne una storia sempre nuova da narrare, una crescita di intelligenza e di sapere, un terreno di esplorazione e di rivelazione di sé e del Sé, a tratti fertile e fecondato da miriadi di creature impalpabili e ridenti che posano sull’universo come un diadema di gemme e di oro, a tratti funestato e avvelenato da demoni corrucciati che si nascondono nelle pieghe del buio. Creature che vestono ora i panni principeschi di fantastici e buoni custodi dell’universo, ora quelli insanguinati e omicidi degli araldi dell’abisso.

In tempi più recenti, in una forma rinnovata che la critica ha battezzato con il nome di fantasy, la tradizione occidentale della fiaba ha toccato i suoi vertici, soprattutto sul piano spirituale, con le opere di due famosi scrittori: “Il Signore degli anelli”, il capolavoro di J.R.R. Tolkien (1892-1973) che ha convocato tutta la grande tradizione mitologica e fiabesca dell’Occidente, soprattutto nordico, su un tremendo scenario di guerra tra bene e male; e i sette romanzi delle “Cronache di Narnia” di C.S. Lewis (1898-1963) nutrite come l’epica di Tolkien, sia pure in una forma meno cupa e più divagante e leggera, di contenuti profondamente cristiani.

La declinazione in chiave cristiana della tradizione favolistica europea messa a punto da Tolkien e Lewis, illumina e spiega il senso più originario e profondo della fiaba. Anche queste saghe fantastiche moderne infatti sono popolate, oltre che dai dominatori della tenebra e del male, di creature fatate vestite di luce e bellezza, dotate di poteri benefici, tanto più splendenti quanto più brutali, feroci e deformi sono le incarnazioni fisiche del male in tutte le sue possibili manifestazioni. Questi due grandi scrittori ci suggeriscono che la fiaba, lungi dall’essere un racconto di pura evasione e disimpegno, è il primo pallido segno, nella fantasia dei bambini e dei ragazzi, di una presenza intangibile più grande e dell’azione costante di esseri superiori che combattono il buio e il male. Esseri speciali che, nel passaggio dall’età infantile all’età adulta, spesso cessano di attrarre le menti più razionali e ottuse degli adulti regredendo a ingenue e risibili invenzioni per bambini. Oppure, come ci insegnano Tolkien e Lewis, possono continuare a vivere e, una volta assolta la loro funzione “vicaria” di risvegliare nei più piccoli il presagio di un Oltre sconosciuto e di un Bene che deve sempre vincere il Male, sono destinate, nel cuore di chi si sentirà chiamato, a deporre i loro tesori ai piedi del solo e unico Custode del cosmo. Come i Magi che, dalle terre incantate della favolosa Persia, dopo un lungo viaggio guidato dalla Stella, deposero i loro poteri e i loro ricchi doni regali ai piedi della culla, nella Notte Santa che ha per sempre vinto tutte le notti umane profanate dal dolore, dal male e dalla morte. L’augurio per queste feste sante è che il loro oro, il loro incenso e la loro mirra adornino e profumino ogni giorno della nostra vita.

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