Da Pirandello a Buzzati




Luigi Pirandello (1867-1936) e Dino Buzzati (1906-1972), pur attivi in tempi diversi, sono comunque legati ad una medesima temperie culturale e letteraria. Entrambi sono stati in questi ultimi giorni al centro della vita teatrale cittadina: Luigi Pirandello con un lettura a leggio alla Contrada, Dino Buzzati al Rossetti con la riduzione teatrale del suo romanzo “Il deserto dei Tartari”.

La critica letteraria ha coniato numerose definizioni per raccogliere sotto una medesima etichetta le diverse linfe che scorrono e si intrecciano all’interno della cultura e dell’arte della prima metà del Novecento, con lunghe propaggini che arrivano fino a noi: cultura della crisi, decadentismo, ermetismo, soggettivismo centripeto, relativismo, pessimismo e nichilismo. Ma al di là delle definizioni, sempre parziali e troppo circoscritte, questo periodo ha rinnovato alle radici la tradizione culturale e letteraria italiana, specie quella ottocentesca così paludata e angusta nel suo storicismo patriottico e nel suo romanticismo sospiroso e provinciale.

La nostra città, per il suo retroterra culturale coltivato e fatto maturare dalla penna di Joyce, di Svevo e di Saba, è luogo molto adatto alla ricezione e all’approfondimento delle voci più inquiete e profonde di quella che per comodità di esposizione chiameremo la stagione del decadentismo. Una stagione che, al di là dei suoi limiti e della sua insistenza, non di rado compiaciuta, sui lati bui e negativi dell’esistenza, ha mandato all’aria tante false certezze filosofiche e spirituali per mettersi alla ricerca di un senso nuovo, autentico e vivificante. Smontando la visione classica della vita e dell’uomo, in cui tutto si incastrava a perfezione e ogni cosa era sistemata con precisione e fiducia al suo giusto posto, i grandi autori della crisi, come Pirandello e Buzzati, hanno manifestato un rifiuto più che legittimo non tanto di questa visione in sé, quanto del suo protrarsi e progressivo svuotarsi in una episodica ritualità puramente esteriore. La religione a cui alludiamo è quella “borghese” concepita e manifestata con lo stesso spirito mercantile e utilitaristico dell’uomo di affari. Infatti i più dotati rappresentanti del decadentismo si sono ribellati alla riduzione piccolo-borghese della spiritualità stessa, già assottigliata e indebolita dall’illuminismo prima e dal positivismo poi. Allora infatti cominciò la progressiva negazione delle radici cristiane dell’Europa, se non a parole, di certo nei fatti.

La ribellione di scrittori come Pirandello e Buzzati si è scontrata con due nemici. Da una parte ha dovuto fronteggiare i nuovi aedi della tecnica e della scienza, figli e nipoti del positivismo trionfale, negatori inflessibili e arroganti di ciò che è invisibile, divino e spirituale e partigiani faziosi nel circoscrivere il proprio campo di azione, di ricerca e di studio al regno del visibile e della ragione. Dall’altra hanno volto le spalle con delusione e tristezza a tutti coloro che hanno ridotto, per il proprio utile e i propri interessi, o semplicemente per pigrizia, aridità ed egoismo, la vita dello spirito a una patente di dignità e rispettabilità esteriori.

I “decadenti” infatti si ribellano ad entrambi questi nemici, guidati da una sorta di struggente nostalgia verso una pienezza e una compiutezza oramai perdute. Più che la negazione della verità, questi inquieti cercatori di un senso e di una ragione genuini e veramente sentiti, si sono messi in viaggio nel deserto della modernità per ritrovare la sorgente della vita, la vera vita, non quella artificiale della scienza o quella decorativa e stucchevole di una religione che la sazia borghesia vive come una parantesi domenicale associata ad un buon pranzo e a una chiacchierata pomeridiana su temi di economia e di politica. Come esistono gli artisti della domenica, così esistono i fedeli della domenica, figli di quell’imborghesimento della vita spirituale che è stato il vero bersaglio di tanti scrittori del Novecento pungolati da una sete spirituale infinita.

Per questo si sono messi in marcia verso luoghi lontani, alla ricerca del tesoro sepolto. Gran parte delle volte l’impresa si è conclusa a metà e non è giunta al desiderato approdo, un po’ come accade nel “Deserto dei Tartari” (1940) dove il protagonista, l’ufficiale Giovanni Drogo, attende tutta la vita che il suo destino si compia, e proprio quando lo vede profilarsi all’orizzonte, è oramai vecchio, stanco, malato e prossimo a morire. La Fortezza Bastiani, a lui assegnata perché la difenda dall’attacco dei nemici, è simbolo di una condizione umana isolata, prigioniera e come sospesa nel nulla; la lunga attesa del nemico che dovrebbe valicare il confine del deserto dei Tartari è metafora di una realizzazione umana continuamente differita e gli stessi Tartari sono l’emblema di un destino che si nega continuamente e che, quando arriva e ci mostra il suo volto, ci trova ormai troppo stanchi e disillusi.

Ascoltando la voce di questi cantori della decadenza – l’Impero alla decadenza che guarda i barbari passare, come cantava Verlaine — non si può non avvertire, racchiuso nella stessa disperazione, disinganno e sfinimento di tante pagine pur altissime nell’ispirazione e nella forma, un anelito struggente e lacerato verso qualcosa o qualcuno che, pur nascosto, da qualche parte ancora esiste e vive. Né dentro le città industriali e abbrutite, né dentro i rituali borghesi della domenica, in nessuno degli orizzonti moderni atei, agnostici o fintamente devoti, questi uomini di pensiero e di penna hanno trovato la sapienza e il significato, la gioia e l’appagamento della verità ritrovata, l’ardore e la fiamma dell’eterna assoluta novità dello spirito. Nel loro smarrimento, nelle loro malinconie, nella loro aperta volontà distruttiva e nelle loro desolazioni senza fine, i cantori dell’“Impero alla decadenza” in realtà hanno volto i loro passi fuori dal mondo limitato dell’uomo che non crede più in nulla se non nel proprio tornaconto e che tutto misura sulle ricadute vantaggiose che può trarne.

Questi orfani di senso, nati troppo presto o troppo tardi per vedere l’aurora di una nuova era purificata e splendente, si sono messi in viaggio verso un’isola, magari sognandola negli interstizi minimi tra incubo e incubo, nel corso dell’oscura ma necessaria traversata, nelle lunghe notti dell’attesa in cui il silenzio sembra ormai vuoto di ogni voce saggia e consolante, un’isola che ci ricorda i versi di “Invito al viaggio” di Charles Baudelaire (1821-1867), uno dei padri del decadentismo che, in mezzo alla navigazione tempestosa e disperata della sua vita non riuscita, ad un certo punto volge la prua della sua immaginazione verso un luogo intangibile e magnifico dove tutto è “beltà”, “ordine” e “calma”, dove: «Mobili luccicanti / che gli anni han levigato /
 orneranno la stanza;
/ i più rari tra i fiori /
che ai sentori dell’ambra / 
mischiano i loro odori, /
 i soffitti sontuosi,
 / le profonde specchiere, l’orientale
/ splendore, tutto là
/ con segreta dolcezza
 / al cuore parlerà
/ la sua lingua natale». Nella moderna Babele di linguaggi, forse tanti poeti, scrittori, artisti e intellettuali hanno manifestato ed espresso la nostalgia di questa “lingua natale” e si sono avventurati a cercarla, sospinti nel profondo da quella giovanile ed entusiasta “promessa di felicità” che uno dei grandi sconfitti della decadenza, come Arthur Rimbaud (1854-1891), ha per tutta la vita atteso, anche lui nella sua Fortezza e in un deserto vero, quello africano, ove emigrò anche per tenere fede a quella buona antica promessa calpestata da un’Europa che in uno stillicidio mortale aveva già iniziato a perdere la propria anima.

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