Addio ad Andrzej Wajda, l’ultimo Maestro del cinema polacco




A suo modo Andrzej Wajda la buona battaglia l’ha combattuta, sempre dietro la macchina da presa, il suo amore di una vita, da cui non si separava mai e con cui ha lavorato fino alla fine praticamente, sulla soglia dei novant’anni, senza mai smettere di lavorare. E se non sarebbe già una lezione questa, al giorno d’oggi. Ma, naturalmente, Wajda, scomparso in settimana, è stato molto ma molto di più: l’ultimo rappresentante del miglior cinema continentale, vorremmo dire, convinto ancora nel XXI secolo che il fine di ogni vero regista e dunque del buon cinema fosse la buona narrazione, fedele alla realtà e significativa nei contenuti, perché ogni opera trasmette comunque sempre un messaggio a chi la guarda. Già questo bastava a fare di lui un antimoderno, in un tempo in cui si sprecano i volumi sulla fine delle grandi narrazioni, letterarie come cinematografiche, e sul fatto che nessuno in fondo possiede nessuna verità e tutto diventa allora sperimentalismo, fusione libera di generi a piacimento e senza confini, com’è il noir ad esempio, e lo spettatore dovrebbe scoprire lui da solo se mai c’è – se mai vuole – un senso dietro al grande schermo. No, non era decisamente questa l’idea di Wajda, che nella sua carriera impressionante ha attraversato comunque i territori storici e letterari più diversi: dal ritratto del rivoluzionario francese George Danton al capolavoro I Demoni di Dostoevskj, fino a toccare il dramma della Seconda Guerra Mondiale e infine, soprattutto, negli ultimi anni, la storia patria del Novecento. Per lui il cinema non era tanto questione di stilismi pseudo-estetizzanti, montaggi a sorpresa ed effetti speciali, nemmeno oggi, ma era sempre lo specchio parlante di quel dramma misterioso che è la vita dei popoli, come delle famiglie come dei singoli. Ma che fosse misterioso non voleva certo dire che era insensato, anzi. Anche e soprattutto per questo, oltre che per alcune sue idee non certo conformiste, Wajda è rimasto ai margini – come si dice – del cinema che conta. Rispettato e anche onorato sì, ma come si fa quasi per dovere di forma con chi non si può proprio fare a meno di farlo. ‘Statico’, ‘banale’, ‘poco fantasioso’ e ‘non abbastanza creativo’, così è stato giudicato di volta in volta il suo cinema dai cantori del nulla d’autore, gli stessi che trovano parole come etica e moralità praticamente prive di senso per un produttore cinematografico. Certo, opere come Katyn (sul massacro a freddo, negato per decenni dai sovietici, di oltre 20.000 ufficiali polacchi) o Walesa. L’uomo della speranza (sul volto malvagio del regime polacco abbattuto dalla caduta del Muro nel 1989) non hanno contribuito a perdonarlo nemmeno negli ultimi anni e resta anzi il dubbio che Wajda se le sia potute permettere solo allora – alla fine della sua carriera – perché era Wajda e se pure la critica le avesse distrutte in toto lui avrebbe sempre potuto fare spallucce e rispondere di rimando ‘e chi se ne importa’, come fanno gli uomini liberi. Ma appunto perché era il Maestro Wajda, e non Mario Rossi. L’ultima opera di questa trilogia d’altri tempi avrebbe dovuto essere un film su Solidarnosc, la sua nascita e la sua epopea, spiegando a chi non c’era che cos’era quel sindacato pionieristico che sotto un regime oppressivo in poco tempo era riuscito ad avere col passaparola più iscritti del partito unico (oltre 10 milioni) andando in giro con croci, rosari, e lo stemma ufficiale dedicato all’Arcangelo Michele e alla Madonna di Jasna Gora. Si capisce che uno così in certi posti non sarebbe mai entrato. Anche solo per questo, non solo per i manuali della storia culturale polacca, Wajda meriterebbe una citazione e un ricordo da tutti quelli che pensano, nonostante tutto, ancora oggi, che l’Europa sia qualcosa di più di un trattato, di un territorio di scambio economico-commerciale o di una cartina geografica.

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