I passi del silenzio




Se ci fate caso, una delle caratteristiche più impressionanti dei tempi che corrono è la scomparsa – soprattutto nelle grandi città – della dimensione del silenzio. Persino di notte ormai, è un’esperienza rara. Dalla mattina alla sera tutto intorno a noi è un continuo alternarsi di clacson, suonerie di cellulari, radio a tutto volume, televisioni, ovviamente internet con i suoi mille canali multimediali e chi più ne ha più ne metta. Abituati come siamo a questa sorta di evidenza onnipresente, il fatto che prima di noi intere civiltà si siano organizzate intorno alla dimensione del silenzio ci pare un assurdo. Così, accade che quando qualcuno riesce a cogliere qualcosa del tempo che fu, e di ciò che ne rimane, la sorpresa non protrebbe essere più grande. Sempre su TV2000, di cui parlavamo qualche settimana fa, vanno in onda infatti in questo periodo le puntate della fortunata serie I passi del silenzio che per la prima volta porta gli occhi indiscreti delle telecamere dentro i chiostri dei monasteri d’Italia, da nord a sud, raccontandone la vita in presa diretta e alternando – per l’appunto – i canti liturgici e della vita comunitaria ai vari momenti di silenzio e meditazione. Un’operazione televisiva per palati fini, e sensibilità esigenti, decisamente riuscita, ma per lo spettatore-medio dei giorni nostri, oggettivamente, é uno schock. Eppure, per secoli, la civiltà cristiana ha progettato la sua vita in modo più o meno analogo, alternando il lavoro dei campi, la semina e il raccolto, ai pasti frugali, la preghiera a ore fisse, magari sollecitata dal suono di qualche campana nelle vicinanze e il riposo notturno. Ora, bene che vada, se sentiamo per caso qualche campana  pensiamo che da qualche parte ci sia un matrimonio. Bene che vada. Perchè impegnati come siamo a correre e mantenerci indaffarati dalla mattina alla sera il fatto che possano esserci momenti di ‘pausa’, di silenzio, nell’arco della giornata, ci pare un non-senso e uno spreco insopportabile di tempo. Pensavo a tutto questo mentre leggevo alcuni articoli di giornale sulle città europee più alla moda del momento, con in testa Berlino. Una città che, per l’appunto, come si legge con toni entusiastici ‘non dorme mai’: a qualsiasi ora del giorno e della notte c’è sempre qualcosa da fare, da dire, da comprare, da ascoltare o da vedere. In ogni caso, assolutamente da non perdere. Locali glamour e vetrine scintillanti, cinema aperti 24 ore e spettacoli a ripetizione, senza soluzione di continuità. Pare di leggere un racconto fantasy dei più improbabili e invece è la realtà. Persino la notte ‘è viva’, con milioni di luci che illuminano a giorno l’intera metropoli in modo che il visitatore di turno non si accorgerà nemmeno che è notte. Ohibò, bella questa. Si aspetta tanto la sera per riposarsi dalle fatiche del giorno e poi si scopre che il giorno in realtà non finisce mai. Sarò strano io, ma ammetto che il senso di certe cose mi sfugge.

            Stando ai sociologi più esperti, peraltro, non sarebbe solo questione di Berlino o Londra: la tendenza è che lentamente – ma inesorabilmente – anche le nostre grandi città andranno in questa direzione. Il modello sono metropoli come New York, ‘la Grande Mela’, o Los Angeles, ci dicono, dove i supermercati sono aperti anche di notte e si aspetta l’alba in piedi cosicchè se uscite di casa alle cinque di mattina un mercoledì qualsiasi della settimana troverete comunque in giro un sacco di gente. Continuo a non capire, insisto. E, francamente, non vedo che cosa ci sia di bello, o di utile, nel rendere interscambiabili il giorno e la notte o il lunedì con il giorno festivo della Domenica che – di nuovo – per intere civiltà, in ossequio al precetto divino, è sempre stato un giorno speciale, diverso e quindi irripetibile. Il tutto, poi, sempre correndo come pazzi dalla mattina alla sera perchè il senso della vita starebbe tutto nel fare, fare, fare, ancora fare e andando sempre al massimo, con lo stereo acceso, il telefonino di ultima generazione in una mano e il tablet nell’altra. Contenti loro. Però, forse, uno dei motivi per cui la filosofia, ma anche l’arte contemporanea, sono andate in crisi è proprio questo. Ci siamo sforzati talmente tanto che abbiamo di fatto reso praticamente impossibile la nascita, e la crescita, di un filosofo o di un artista in quanto tale. Ne abbiamo rimosso le condizioni ambientali. Ricordo a questo proposito che uno dei miei professori all’università soleva ripetere che se molti dei più grandi geni dell’umanità (scrittori, compositori, pittori) fossero nati ai giorni nostri non sarebbero riusciti a fare nemmeno la metà di quello che hanno fatto, probabilmente “sarebbero impazziti prima”. Disse proprio così. Sarebbero impazziti. La differenza tra la loro estrema e finissima sensibilità e il caos rumoroso di oggi attorno a noi li avrebbe devastati. A volte ce lo dimentichiamo. Abituati come siamo a trovarci davanti la Pietà di Michelangelo bella e fatta o le pagine di Delitto e castigo di Dostoevskij riprodotte sull’ultimo e-book in metropolitana, ignoriamo che per arrivare a quel risultato l’artista ha dovuto compiere un percorso di vera e propria ascesi in cui il silenzio, la meditazione e la contemplazione svolgevano un ruolo essenziale. Per mesi e mesi, a volte addirittura anni. Noi del fantasmagorico XXI secolo, invece, che veniamo dopo di loro e quindi, come vuole il politicamente corretto imperante, siamo per forza meglio, al solo sentire la parola ‘silenzio’ ci giriamo dall’altra parte in cerca di qualcos’altro di più interessante. Eppure, basterebbe aprire la Bibbia per leggere ogni due per tre che Dio parla a noi proprio nel silenzio. Un motivo ci sarà. Pensiamoci. Sarà bene che qualcuno glielo dica dalle parti di Berlino, prima che sia troppo tardi. Sempre che gl’interessi ancora, s’intende.

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