Wojtyla al Sinodo




Nell’ansia di novità che contraddistingue culturalmente – almeno in Occidente – i tempi che corrono, a volte si corre il serio rischio di ignorare completamente la verità e anche la bellezza che ci sono state lasciate, per grazia, in eredità. Prendiamo il dibattito pubblico, ed ecclesiale in particolare, sul tema della famiglia e sulla sua vocazione nella società contemporanea, per esempio. A volte, sentendo certi interventi sui media, pare proprio che nulla, o quasi, caratterizzi la posizione cristiana dalle altre profane, il che – ne converrete – è semplicemente assurdo se solo si considera che la Redenzione del genere umano è stata realizzata a partire dal ‘Sì’ di una famiglia (perché poi di questo si è trattato: se Maria ha dovuto dire sì all’annuncio soprannaturale che le portava l’Arcangelo, San Giuseppe da parte sua ha dovuto dire sì a un mistero che pure lo superava infintamente) e che il matrimonio è stato elevato in grazia e santità da Nostro Signore in persona il Quale – come si dice dove si fa buon catechismo – ha scelto di dare avvio alla sua missione pubblica, e ai miracoli che l’hanno segnata dall’inizio alla fine, proprio in occasione di un matrimonio, a Cana di Galilea. Questo, e molto altro che pure si trova nelle Scritture, costituisce da allora la bussola che guida l’insegnamento pastorale della Chiesa e la trasmissione della sua sapienza evangelica. Per un cristiano che vive nel mondo il matrimonio dovrebbe essere il principale mezzo di santificazione: tra i tanti motivi che inducono a fare quella scelta fondamentale, a rigor di logica, e di fede, non dovrebbe mai mancare la domanda: “sono pronto a fare il cammino di santità con questa persona? e a fare tutto ciò che mi sarà chiesto per santificarla, santificandomi così a mia volta?”. Ora, capita che mettendola proprio su questo piano, la gente cominci invece a guardarti con aria stupefatta come se stessi parlando dei segreti incomprensibili della fisica quantistica. Non era però questo – tra gli altri – il pensiero di Giovanni Paolo II il Grande, il Papa più amato degli ultimi anni, “il Papa della gente”, anzi, come molti l’hanno definito. Del suo ampio magistero sulla famiglia è rimasta celebre in particolare la grandiosa esortazione apostolica Familiaris Consortio ma i documenti da ricordare sono tanti, e qui ne segnaliamo due particolarmente adatti al grande pubblico: il saggio Amore e responsabilità, e il dramma La bottega dell’orefice, entrambi usciti agli inizi degli anni Sessanta. Da quest’ultimo, pensato appunto originariamente come un testo teatrale, venne tratto poi anche un film omonimo, con Burt Lancaster, di cui parlammo tempo addietro in questa rubrica (http://www.vitanuovatrieste.it/un-film-per-la-famiglia/). Oggi ci soffermiamo invece sul saggio che, dopo qualche anno di latitanza, è stato felicemente ripubblicato in Italia dalle edizioni Marietti.

Il motivo è presto detto: se nel testo de La bottega dell’orefice, l’allora don Wojtyla parlava narrativamente dell’amore umano alternando creativamente spunti lirici e meditazioni di ambito più filosofico, qui il futuro Papa spazia a tutto campo su fidanzamento, matrimonio e famiglia argomentando la visione cristiana con un linguaggio pedagogico e brillante al tempo stesso comprensibile da tutti e diretto a tutti. Il risultato è, a nostro avviso, un volume catechetico straordinario tra i più riusciti di sempre in assoluto sul tema in ambito cattolico. Intendiamoci: non che altre encicliche precedenti o documenti dottrinali lo fossero meno, ma – come dire – qui  è anzitutto il pastore di anime affascinato dal mistero dell’amore umano che co-partecipa (come si esprimerebbero i teologi) alla Creazione divina a parlare. E il punto di partenza è l’osservazione dell’agire interpersonale della singola persona, chiamata a realizzarsi pienamente secondo la propria vocazione, cioè, concretamente a santificarsi: da qui il primato del valore sociale dell’esercizio della sessualità, con tutto ciò che ne consegue (non saremo noi a dover ricordare che un certo orientamento intellettuale, anche all’interno della compagine cristiana, nel recente passato ha spinto piuttosto nella direzione opposta tendendo perlopiù a privatizzare l’amore di coppia come se questo fosse un fatto meramente intimistico…ci si può sorprendere se poi ai corsi prematrimoniali i ragazzi dichiarano allegramente apertis verbis che la loro unione non ha, né dovrebbe avere, nessun particolare rilievo pubblico?). Prima ancora delle catechesi del mercoledì che – da Papa – daranno poi luogo all’elaborazione della cosiddetta ‘teologia del corpo’, è qui che Wojtyla pone le fondamenta della pastorale famigliare contemporanea alla luce della Rivelazione divina. Non è teoria astratta perché le riflessioni scaturiscono proprio dall’esperienza pratica del giovane sacerdote che accompagnava all’altare coppie di fidanzati a Cracovia, e d’altra parte non è nemmeno sociologia da quattro soldi, giacché l’orizzonte di riferimento è sempre e unicamente il Vangelo. Tra una riflessione sulla morale kantiana e una confutazione della teoria della libido di Freud, l’Autore offre una panoramica dettagliata delle varie visioni dell’amore umano dei suoi (che sono anche i nostri) tempi e motivando – apologeticamente – come la chiave cristiana sia l’unica ad aprire quella porta nascosta della bellezza, via per l’eternità, a cui tutti aspiriamo. L’amore vero, infatti, è sempre a tre: perché tra i due innamorati c’è sempre Dio, che li ha amati da prima che nascessero, dando la vita per loro e riaprendogli per sempre il Paradiso. Ma è vero pure il contrario: un amore che si costruisse autonomamente, senza o contro Dio, non sarebbe nemmeno umano alla fine perché è solo Gesù ad aver rivelato la pienezza dell’amore umano. Non sappiamo che cosa direbbe oggi Wojtyla al Sinodo, chiaramente: non sappiamo le parole che userebbe, cioè. Sappiamo però che cos’è stata la sua lunga vita e la sua riflessione – oggettivamente poderosa – sull’amore umano: una chiamata esigente alla santità dei Figli di Dio invitati a essere perfetti – come dice la stessa Parola – nonostante tutto, a immagine del Padre. Né più, né meno. Anzi, per meno di questo, forse, realisticamente parlando, non ci sarebbe bisogno di scomodare poi nessun Cristianesimo. Basterebbe confessare di bastare sufficientemente a se stessi, così come si è, e che l’orizzonte dell’amore che si coltiva è puramente terreno, senza peccato originale, senza necessità di guarigione, da niente e da nessuno, e senza eternità.

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