Week-end e Cristianesimo




Uno degli effetti più visibili della globalizzazione dei costumi e dei modi di vivere in ambito mitteleuropeo tra i giovani è sicuramente l’omologazione della concezione del week-end, come si dice oggi con l’espressione che tradisce anche le origini culturali del ‘fine-settimana’ lungo. Intendiamoci: con i tempi che corrono non sarà di certo il primo problema da affrontare con urgenza e nemmeno il secondo ma, ci pare, la sua importanza non può essere sottovalutata. Se fate un giro nelle principali metropoli danubiane, da Praga a Sofia, oggi vi rendete subito conto che anche lì il venerdì pomeriggio ha inizio la lunga festa di tre giorni senza limiti che per i giovani e giovanissimi – quando va bene – consiste poi in un aperitivo dopo l’altro fino a prendersi la ‘consueta’ sbronza che viene poi smaltita la Domenica. Il fenomeno è talmente diffuso che non c’è bisogno di indagini particolari per accertarlo. Ora, va detto che fino a qualche anno fa, non secoli, una tale situazione sarebbe stata del tutto inedita perché – e qui volevamo arrivare – la settimana socialmente conservava ancora il suo intrinseco significato cristiano. In quest’ottica, come noto, ogni giorno ha la sua dignità, unica e diversa. Il venerdì è (non solo nei tempi detti ‘forti’ dell’anno liturgico) un giorno penitenziale: si medita sul sacrificio del venerdì Santo e sulla Croce, aspetto sottolineato anche dall’astinenza dalle carni e in generale da pasti più poveri e frugali. Il sabato invece tradizionalmente è il giorno di Maria e dell’attesa della Risurrezione: nella storia della Cristianità il primo aspetto in particolare è stato seguito con fervente costanza da schiere intere di Santi che in passato solevano – per esempio – ogni sabato prendere Messa in un santuario o una basilica o anche una piccola Chiesa dedicati alla Vergine proprio in suo onore. La Domenica, infine, è il culmine della settimana cristiana: i cristiani, si potrebbe dire, fin dall’antichità ‘vivono’ per e in funzione della Domenica. E’ lì che riprendono le forze per il cammino della vita e la grazia dell’Eucaristia che celebra la vittoria sulla morte e il trionfo della vita eterna. C’è insomma un senso profondo nella settimana vissuta cristianamente: anche se molte tradizioni e usi si sono purtroppo persi nel frattempo, il semplice succedersi dei giorni ricorda comunque ancora – nonostante tutto – ai cristiani di oggi il significato ultimo di quello che stanno facendo. Sempre più, però, nelle giovani generazioni particolarmente, queste cose non vengono più riconosciute, né spiegate, ed è allora che può affermarsi indiscriminata la concezione del fine-settimana lungo dove ogni giorno è uguale all’altro perché finché non arriva il lunedì mattina tanto è sempre tempo di festa.

Che c’è di male? Potrebbe forse obiettare a questo punto qualcuno. Nel festeggiare, in quanto tale, purché ci sia realmente qualcosa da festeggiare, non c’è niente di male evidentemente, rispondiamo noi. Solo che per essere sensata, come insegna la lettura cristiana della settimana, anche la festa deve avere un limite, per quanto possa sembrare assurdo alla mentalità odierna. La sapienza della Chiesa ci dice anzi che senza quel limite neanche la festa alla fine è veramente tale. Diventa un’altra cosa. Uno sballo, infatti, o forse un diversivo per non pensare, ma non una vera festa. La Domenica allora è possibile solo se prima c’è stato il venerdì e anche il sabato perché la Resurrezione presuppone la Croce. Senza Croce non c’è nessuna Resurrezione. Troppa teologia per un po’ di divertimento? E se fosse invece un’ulteriore dimostrazione che senza il riconoscimento di Cristo nemmeno gli spazi più profani del tempo a lungo-termine conservano la loro specificità? Non è un fatto di mera organizzazione pratica del lavoro, come spesso si pensa, ma un fatto di gerarchia di priorità e di valori assoluti, trascendenti e poi umani. La priorità della Domenica è sancita addirittura dal Decalogo e la società occidentale storicamente si è sempre costruita intorno a questo dato inalienabile: così facendo ha onorato Dio e ha conservato anche la dignità degli uomini. Ora che si tende a non onorare più Dio, vedete che fine fa anche la dignità umana. Come ebbe a dire una volta il Curato d’Ars: “Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie…”. Ipse dixit. Difficile dire che parlava uno che non se ne intendeva. Insomma, se l’evangelizzazione contemporanea oggi comincia necessariamente dal dialogo con la cultura dominante negli spazi pubblici sarà anche il caso di affrontare quest’argomento – prima o poi – perché nonostante quello che se ne dice da alte cattedre l’uomo nel suo profondo resta pur sempre un essere infinitamente assetato di senso: date un senso, per favore, a quest’umanità.

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