La complessità sia delle risorse sia delle problematiche del mondo universitario richiedono strategie altrettanto complesse. Quali i punti di forza? Quali le sfide? Quanta strada abbiamo ancora da percorrere per tenere il passo con un mondo globalizzato e multidisciplinare? Ne abbiamo parlato con Cristina Benussi, tra i relatori del terzo e ultimo incontro della Cattedra di San Giusto.
Come si sono evoluti negli ultimi anni i rapporti e le dinamiche tra “studio”, “università” e “territorio”?
Il nostro Ateneo sta ragionando programmaticamente in termini di un sistema regionale che comprende non solo l’Università di Udine, ma anche quelle di Slovenia e Croazia, sia per quanto riguarda la didattica che la ricerca. Un ampio settore delle nostre attività riguarda infatti quella che si chiama la terza missione, ovvero il rapporto interattivo con il nostro territorio e le sue problematiche specifiche. Fortunatamente operiamo in una regione a forte concentrazione di enti di ricerca, con i quali la nostra università ha una rete fittissima di convenzioni, accordi quadro, protocolli d’intesa e altro. Quello che manca è una rete altrettanto fitta di imprese capaci di finanziare la ricerca. A parte qualche eccezione, la maggioranza del tessuto produttivo è fatto di piccole e medie imprese, che non possono investire nella formazione di giovani, che pur sarebbero interessati a sviluppare competenze utili all’economia regionale, attraverso la frequentazione di corsi, master, dottorati, scuole di specializzazione, prima di potersi poi, eventualmente, inserire nei ruoli accademici. Le potenzialità per farlo, comunque, ci sono.
E in confronto agli altri paesi europei, come vanno le cose?
La prospettiva è di sviluppare, oltre ad iniziative d’interesse territoriale, tutta una serie di azioni capaci di internazionalizzare il nostro Ateneo, a partire dalla progettazione di double degree e double joint degree; ma poi fondamentale per il nostro futuro sarà portare la nostra ricerca a confrontarsi con quella delle università più qualificate, pur sapendo che la nostra dimensione strutturale non ci permetterà di competere con le mitiche prime cento dei ranking mondiali. Non possiamo rapportarci a Cambridge o a Parigi, ma a tante altre sì. Infatti non siamo posizionati male: ci troviamo più o meno a metà classifica tra le prime 500 nel mondo. Ottimi i risultati sul piano nazionale, soprattutto per quanto riguarda la qualità della ricerca, dal momento che, a seconda dei criteri di ranking adottati dai vari osservatori, oscilliamo comunque nei primissimi posti della graduatoria. Ed è importante segnalarci in questo modo, perché sia l’internazionalizzazione che la qualità della ricerca sono alcuni dei parametri previsti per l’assegnazione di fondi, indispensabili per poter reclutare nuovi docenti, aprire nuovi corsi e dotarli della possibilità di raggiungere i migliori risultati scientifici possibili. Come si vede, è un circolo dal quale non si esce.
Sul versante strutturale, organizzativo e più strettamente culturale l’università, in Italia, gode “buona salute”? E quali sono, a suo avviso, i cambiamenti più urgenti da fare?
Non può godere di buona salute un’istituzione sulla quale la politica non investe, seppur ci siano situazioni variabili da ateneo ad ateneo. Pur non condividendo posizioni assolutamente catastrofiste, è pur vero che ora in gioco è davvero il destino dell’umanità. Sappiamo tutti che il suo futuro è legato più che allo sfruttamento delle risorse, esistenti ma estinguibili, alla capacità di produrre nuova e altra “conoscenza”. La politica europea di finanziamenti è orientata ad affrontare sfide globali, come quelle poste dall’ambiente, dall’energia, dalla salute di una popolazione che invecchia, dalle fonti di produzione, dalle espressioni culturali nonché dai diversi problemi sociali derivanti dalle mutate condizioni economiche. Bisognerà dunque, da parte dello Stato, investire molto ma molto di più in ricerca, e da parte nostra renderci conto che i tempi in cui ognuno si occupava della propria disciplina sono finiti. Bisognerà organizzare la ricerca attraverso gruppi interdisciplinari e multidisciplinari, che sappiano far dialogare le singole competenze tra loro. Visto che sopravvivranno solo le università capaci di produrre alta conoscenza, e di relazionarsi a progetti internazionali, fondamentale sarà anche procedere a un reclutamento ineccepibile delle nuove leve.
Dopo anni di lavoro in ambito accademico come ha visto cambiare il livello dei nostri studi e dei nostri studenti?
Il mio osservatorio privilegiato è quello delle discipline umanistiche e dunque su questo posso esprimermi. Che dire? Non è un tipo di studio che viene socialmente incoraggiato e infatti langue. Il livello è estremamente vario, con eccezioni splendide e una media piuttosto sconfortante, se si rende necessario istituire corsi di italiano di base. Probabilmente per settori in cui la cultura umanistica non viene verificata la risposta sarà diversa, e credo che molto sia cambiato rispetto al passato, perché il mondo è cambiato. Difficile dire se il meglio o in peggio, perché i livelli hanno ora parametri diversi. Il problema è che comunque non è facile conciliare i bisogni di un’università di massa con quelli legati alla necessità di essere d’eccellenza. Qui però il discorso si fa complesso, perché investe una scelta che è, in senso lato, politica. Sappiamo che nel giro di pochi anni sopravvivranno solo le università capaci di far ricerca ai massimi livelli e che non sarà più possibile mantenere tutte quelle esistenti. Ci sarà una selezione che, credo, potrebbe alzare l’asticella della qualità richiesta per potervi accedere.
Quali percorsi di studio consiglierebbe oggi a un giovane che voglia prepararsi bene ad affrontare le sfide della vita, della società e del lavoro?
Qualunque sia il percorso che sceglie, e francamente non mi sentirei di escludere nessuno, deve volersi impegnare al massimo, per ottenere risultati che permettano di precorrere con flessibilità i cambiamenti continui che ogni tipologia di lavoro e di vita ormai richiede. La mobilità di impieghi che non saranno più, nella maggior parte dei casi, “fissi” può essere affrontata solo affinando doti che coinvolgono non solo la specificità della disciplina, ma il modo stesso di rapportarsi agli altri.
Viviamo in un’epoca molto complessa, fluttuante e problematica, che richiede un costante aggiornamento del sapere tecnico-scientifico (informatico, linguistico, economico, etc.) ma anche di conoscenze più strettamente umanistiche ed etiche, pena lo smarrimento e l’insignificanza esistenziali. L’università come può contribuire a coordinare questi due piani del sapere? Lo sta già facendo? E se no, di quali riforme ha bisogno?
Dicevo appunto che le competenze richieste saranno anche di ordine più squisitamente umanistico. Del resto l’ European Research Council ha classificato la ricerca in tre settori, scienze mediche e della salute, scienze fisiche e ingegneristiche, ma anche scienze umane e sociali. Dunque sul piano teorico è riconosciuta l’importanza delle scienze umane, ed è ovvio che sia così, non solo perché permettono di dare un senso più ampio al proprio esistere, ma anche perché aiutano a conoscere e dominare tutta quella vasta gamma di emozioni che è alla base dei comportamenti umani. Sono inscindibili da altre competenze, non si può vivere senza. Il problema è che perseguono valori immateriali ed essendo, apparentemente, fuori mercato, non vengono considerate “utili”. Invece sono fondamentali proprio perché aiutano ad entrare nelle dinamiche delle scelte consce e inconsce, mostrando l’aberrazione di alcune logiche dominanti, cui è possibile invece opporsi. Però è un tipo di esperienza che va fatta ben prima di arrivare all’Università e che, ancora una volta, implica un cambiamento dell’intero sistema sociale, di cui l’Università non è che una parte, seppur tra le più importanti per un progetto di futuro da cui tutti dovremo dipendere.
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