Una strage di operai mai vista al mondo




Questa settimana dobbiamo richiamare l’attenzione sul lavoro , non di Trieste ma in Bangladesh.

Il 24 aprile scorso è crollato l’edificio industriale e commerciale di otto piani denominato Rana Plaza a Savar, Dhaka. I numeri del disastro sono agghiaccianti: circa mille operai morti, soprattutto operaie, e oltre 2400 feriti con orribili lesioni, che richiedono cure mediche immediate e di lungo periodo. Credo che questa sia la strage di operai più grande della storia.

Le sei aziende che lavoravano nell’edificio crollato, per incuria e sottovalutazione dei segnali di cedimento strutturale evidenti da tempo, producevano o commercializzavano capi di abbigliamento per marchi europei e nordamericani. Tra le macerie sono state trovate anche etichette e ordini della italiana Benetton, per questo sollecitata dalla sezione italiana della Clean Clothes Campaign ad un impegno concreto per affrontare l’emergenza scaturita dalla tragedia del Rana Plaza.

Questo è il sinistro più grave accaduto in Bangladesh, ma già da anni incidenti, soprattutto incendi, hanno avuto il loro sacrificio di vite umane in nome di un profitto che non si arresta nemmeno davanti alla morte di migliaia di operai.

In Bangladesh, il settore della produzione di abbigliamento conta 5 mila fabbriche che producono per le grandi marche e per importanti rivenditori, per esempio H&M e Walmart, europei e statunitensi. Il settore tessile abbigliamento, con quattro milioni di lavoratori, soprattutto donne, e un fatturato di 24 miliardi di dollari, rappresenta l’ottanta per cento delle esportazioni del Paese. Il salario minimo è di circa 38 dollari al mesee l’orario di lavoro è di 12 ore al giorno. Solo trenta aziende vedono al loro interno la presenza delle organizzazioni sindacali in rappresentanza dei lavoratori.

Dopo l’incidente del 24, un grande movimento globale sta premendo perché le aziende committenti, assieme ai subappaltatori locali e al Governo del Bangladesh si attivino per un tempestivo e adeguato risarcimento delle vittime e dei loro familiari. Raggiungere questo risultato, non scontato per un Paese del terzo mondo, è vitale per i lavoratori e le famiglie coinvolte ma non sufficiente per impedire che fatti di questa gravità succedano ancora.

Per questo, organizzazioni sindacali come la Industrial Global Union, ma anche l’agenzia delle Nazioni Unite per il lavoro –  International Labour Organization, ILO -, stanno chiedendo con forza al Governo del Bangladesh e alle aziende locali di riconoscere e sostenere le organizzazioni sindacali dei lavoratori e alle aziende committenti occidentali di sottoscrivere un impegno affinché le loro merci vengano prodotte in aziende dove i diritti dei lavoratori e la sicurezza sul lavoro siano rispettati.

Si deve condividere e sostenere l’azione di chi vuol far comprendere che senza diritti dei lavoratori, la presenza di organizzazioni sindacali dei lavoratori e un intervento dello Stato in favore del lavoro e dei suoi diritti non si può creare una cultura della sicurezza sul lavoro ed un sistema positivo di relazioni industriali che porti il lavoro ad elevare la dignità di donne e uomini che oggi sono considerati come meri mezzi di produzione a bassissimo costo.

L’orrore di questi fatti deve spingerci ad agire e non rimanere moralmente inerti. Dobbiamo comprendere come ci ricordano le parole di Benedetto XVI nella Caritas in Veritate che “Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo. L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà” (n. 21).

In questo caso ha prodotto morte e disperazione.

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