Un film per la famiglia




Sì, avete capito bene. Questa settimana, mentre i lavori del Sinodo straordinario sulla famiglia entrano nel vivo, e tutti – ma proprio tutti – s’improvvisano ‘Dottori della Chiesa’ più o meno come tutti s’improvvisano abitualmente allenatori della nazionale ai Mondiali di calcio, vogliamo parlarvi non di teologie ma di un film. Un film molto mitteleuropeo sul matrimonio e sull’amore coniugale. Il titolo è La bottega dell’orefice e risale al 1989. Non è però affatto datato, anzi. Riedito recentemente, si trova in vendita in dvd ormai anche nei normali negozi d’intrattenimento. E’ stato girato in Austria e Germania a partire da un’idea – come si direbbe oggi – di un certo Karol Wojtyla. Non stiamo scherzando, proprio lui. In effetti si tratta di un dramma teatrale in tre atti scritto nell’immediato Dopoguerra dal giovane don Wojtyla quando ancora si occupava di pastorale familiare, alle prese con giovani coppie di fidanzati e sposi, a Cracovia. Lui l’aveva scritto come semplice riflessione personale sull’etica dell’amore umano e celebrazione della bellezza santificante del matrimonio. Visto quello che accadde poi nella sua vita, sarebbe stato destinato a rimanere forse solo un testo tra i tanti (e neanche dei più importanti, si capisce) dell’immensa produzione del pensiero wojtyliano, se l’inglese Michael Anderson non l’avesse ripescato dalla polvere del dimenticatoio per farne un’opera adattata alla televisione decenni più tardi. E che opera, ragazzi. Raramente abbiamo sentito parlare e visto raccontare l’amore in questi termini: senza retorica, senza buonismi e senza illusioni. Oggi che la parola ‘amore’ è diventata pubblicamente una delle più seviziate in assoluto, si fa sempre più fatica a crederci all’amore. In genere, nell’odierna civiltà consumista dell’immagine, se ne è sospettosi. Che qualcuno possa donarsi gratuitamente ad un altro per la vita senza porre condizioni previe non convince gli illuminati di oggi. Così si arriva al trionfo della “filosofia del provvisorio” (Papa Francesco) che pure certi film di casa nostra elogiano alla grande con disinvolta sicumera: ricordate L’amore è eterno finché dura di Carlo Verdone ad esempio?

Viene in mente quella famosa frase di Giangiacomo Feltrinelli: “Il grado di civiltà del nostro paese dipenderà anche, e in larga misura, da cosa, anche nel campo della letteratura di consumo gli italiani avranno letto”. Era intorno alla metà degli anni Sessanta e Feltrinelli si riferiva ai libri (anzitutto ai suoi, ça va sans dire) ma se si toglie la parola “letteratura” e si mette la parola “film” ci pare che il discorso valga lo stesso identico anche oggi, se non di più. L’intrattenimento popolare e il cinema d’evasione dettano lo spartito, la classe colta raccoglie, quella docente trasmette e quella istituzionale ratifica. Ecco la cinghia di trasmissione del pensiero unico. Tutti concordi nel dire che sì, certo, il ‘per sempre’ sarebbe una bella cosa, ci mancherebbe altro, però poi c’è la realtà nuda e cruda. Un conto sono le fiabe per far addormentare sereni i bambini la sera, un conto è la vita vera. In certi settori più à la page, diciamo così, poi, non c’è proprio scampo. Sarà forse per questo che il buon Gotti Tedeschi ogni volta che dei colleghi gli chiedono se abbia dei figli si trova costretto a rispondere “sì, quattro” sentendosi in bisogno di aggiungere subito dopo “ma tutti con la stessa moglie”. Eh già, di questi tempi – gli stessi in cui a una neolaureata che entra nel mercato del lavoro viene chiesto “lei ha mica intenzione di figliare?” con lo stesso tono in cui ai pregiudicati si chiede “lei è un terrorista?” – meglio specificare. Non si sa mai. In ogni caso, tornando a noi, il film che consigliavamo non parla né di Feltrinelli né di Gotti Tedeschi ma di due coppie di ragazzi che decidono per il grande passo. E lo decidono nonostante tutto, sullo sfondo della seconda guerra mondiale, della Patria (l’amata Polonia) occupata e invasa dai nemici, della povertà, insomma dell’incertezza più assoluta sul futuro. Nonostante tutto ciò, è un film di speranza, estremamente realistico ma pieno di speranza. Non manca nemmeno il dolore – il più grande dei dolori – ma non è questo in definitiva ad avere l’ultima parola. C’è questa una piccola fiammella dall’inizio alla fine che dà senso a tutta la misteriosa trama: è la fede nella grazia che fa nuove e rigenera tutte le cose. E poi c’è questa strana figura di orefice (interpretato nell’occasione da un grande Burt Lancaster) che interviene in pochi dialoghi ma ogni volta che parla – con una sapienza non di questo mondo, verrebbe da dire – rimette a posto quello che non va. Come il vero regista segreto della storia, di cui non vi diciamo però ovviamente come va a finire per non togliervi l’acquolina in bocca. Per il resto è un film da guardare più che da commentare e anche sotto questo profilo trasmette un messaggio formidabile: perché la verità vera di per sé è sempre contemplativa ed ha bisogno solo di lasciarsi scoprire, allo stesso modo in cui da un dipinto togliamo il velo che lo protegge dalla polvere e dalla luce artificiale. Noi possiamo, e a volte anzi dobbiamo, togliere il velo per aiutare a guardare chi non ci riesce in altro modo. Ma il dipinto è lì, davanti ai nostri occhi, già finito, che non chiede altro e si offre semplicemente alla nostra contemplazione curiosa come specchio della verità. Non c’è bisogno di ermeneutiche meta-testuali. Per questo, in realtà, se nessuno si offende, diciamo che i critici d’arte sono tra le figure più inutili che possano esistere. Generazioni di nonne e nonni contadini hanno capito benissimo la Natività di Giotto o l’Annunciazione del Beato Angelico senza bisogno di nessun PHD. Certo, nella Babele delle voci che ci circondano ci sarà pure chi scuoterà altezzosamente la testa e persino chi si farà una risata inarcando le spalle ma siamo altrettanto intimamente convinti che nel silenzio rivelatore della propria coscienza, messi di fronte alla propria nudità e a quella Presenza onnipotente che ci ha dato la vita senza chiederci nulla in cambio, alla fine nessuno potrà negare che la pienezza dell’amore a cui siamo stati chiamati dall’eternità è ben e infinitamente più alto della nostra logica umana. Molto più in alto.

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