Trieste e l’Arte Orientale




Trieste ha una certa famigliarità con l’Oriente. Un segno privilegiato di questa vicinanza e di questa passione, che la nostra città ha alimentato attraverso una fitta rete di rapporti commerciali marittimi con il Levante, è il Civico Museo d’Arte Orientale (Palazzetto Leo, via San Sebastiano 1). In esso sono confluiti preziosi oggetti di collezioni private: sete, stampe, armi, porcellane, oggetti rituali, armi e armature, maschere e strumenti musicali del teatro popolare giapponese kabuki.

Mercoledì 19 febbraio ci è stata offerta un’altra affascinante occasione di incontro con questo mondo così diverso dal nostro: nella Sala “Bobli Bazlen” di Palazzo Gopcevich infatti Adriano Casertano ha fatto da guida in un viaggio singolare, tra sacro e profano, dentro le immagini dell’antica cartolina giapponese.

Incontrare questo fluttuante universo di forme e di significati rappresenta un’esperienza spirituale di rara intensità. Abituati come siamo al diluvio quotidiano di immagini e stimoli sensoriali, la cultura orientale con il suo culto del silenzio, dell’attimo, della bellezza segreta nascosta nei particolari — bellezza sempre discreta, garbata, cortese — ci introduce in un cosmo regolato dalla gentilezza, dall’amorevole disponibilità ad accogliere e dalla serena contemplazione.

Il sacro è presente nelle piccole cose del quotidiano come nei grandi fenomeni della natura; la cerimonia del tè è un rito che richiede una preparazione accurata e lunghissima in cui si congiungono sapienza, filosofia e ascesi. Il periodo della fioritura degli alberi, specie dei ciliegi, è occasione di festa. Nessuna manifestazione estetica, purché semplice e immediata, è trascurata dalla cultura giapponese. Una capanna in riva ad un fiume è spesso, nei diari e libri di memorie di cortigiani in ritiro dell’antico Giappone, la meta a lungo sognato: sedersi sulla sponda, seguire lo scintillio dei pesci d’argento che guizzano nelle acque cristalline, ascoltare il canto delle anatre selvatiche, contemplare il fluttuare dei giunchi acquatici e indovinare il segreto delle forme cangianti degli uccelli in volo, tutto questo è sacro per il mondo orientale. La pace, il distacco dai tumulti della vita di corte e dei piaceri mondani, la sapienza del poco e del giusto, sono le misure perfette di una vita riuscita.

L’arte rispecchia questo spirito che sa incantarsi alla vista di un fiore, di un insetto variopinto, di un ramo che disegna nell’aria una linea sinuosa. Abituati come siamo alla nostra arte, che in passato ha cercato la pienezza e la densità dei linguaggi per poi immiserirsi nel abbrutimento moderno che cerca il proprio fine nello sfregio, nella sfida volgare e nel gesto blasfemo, questo mondo ci sorprende e ci ammalia.

Dal suo linguaggio, rispettoso del silenzio, del piccolo, del minimo, del semplice, dalla sua umiltà raffinata e preziosa che conosce l’arte di scoprire e catturare l’intima armonia delle cose, ci viene incontro il suggerimento sommesso di un modo diverso di vivere e di interagire con il mondo. Persone, oggetti, animali, fiori, tutte le creature sono convocate sulla scena, accarezzate dolcemente e persuase a rivelare il loro segreto e la loro misura.

Al confine tra apparire e risonanza interiore, l’uomo incantato e benevolo è in ogni istante chiamato a dare un nome sempre nuovo alle cose, come all’alba della creazione.

Anche il profano perde allora la sua estraneità al sacro. Ovunque si trovi, l’uomo che ha raggiunto questo sguardo non si sofferma più sulle imperfezioni e le mancanze delle cose, ma in tutto indovina le tracce del divino. L’arte diventa attitudine dell’anima, capacità di tirarsi indietro per lasciar essere le cose che sono, affinché ogni giorno tutto conosca una nuova aurora. Uno sguardo che ha imparato a soffermarsi a lungo sui colori e le linee di una porcellana, di una seta dipinta, di una semplice cartolina con l’istantanea di un tempio o di un giardino zen, è uno sguardo che conosce l’arte di gioire. Un’arte rara, da perseguire giorno dopo giorno, con instancabile ardore. 

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