Trieste e la legge 180




La depressione ha alle spalle una storia antica come l’uomo. Denominata di epoca in epoca con diversi termini e curata secondo i più diversi approcci, questa affezione dolorosa e angosciante che tocca allo stesso tempo il corpo, la mente e lo spirito, ha suscitato innumerevoli interpretazioni. La scorsa settimana si è tenuta presso il Circolo della Stampa una conferenza del prof. Maurizio De Vanna sulla depressione e su tutti i disagi ad essa collegati, dal rapporto con i famigliari e con il mondo esterno all’ardua scelta delle terapie giuste. La conferenza si è incrociata con un anniversario molto importante per la nostra città: il 40° della chiusura del manicomio di Trieste ad opera del direttore Franco Basaglia (1924-1980), presente e attivo nella nostra città a partire dal 1971. Il lavoro di Basaglia nel nostro Ospedale psichiatrico ha fatto di Trieste una città guida nell’approccio alle malattie mentali, lavoro confluito nell’approvazione in Parlamento, il 13 maggio 1978, della legge 180 che riformava dalle fondamenta la psichiatria sancendo la chiusura dei vecchi manicomi, più simili a prigioni che a luoghi di cura e riabilitazione.
Proprio a Trieste i continuatori dell’opera e del pensiero di Basaglia in questi giorni hanno espresso l’esigenza di una riforma della legge 180 che migliori i servizi già esistenti, ne introduca di nuovi, mobiliti maggiori risorse per l’assistenza delle persone: una riforma in sostanza che consenta di realizzare sino in fondo lo spirito animatore della 180 che negli anni non è ancora riuscito a compiersi integralmente. L’aspirazione di Basaglia ad abbattere le pareti che dividono i “malati” dai “sani”, l’idea che la “follia” possa essere lievito di una società troppo asserragliata dentro schemi rigidi e modelli ancestrali di esclusione, la stessa permeabilità tra i due versanti della cosiddetta, sempre ipotetica, “normalità” e della temibile e pericolosa “pazzia”, hanno infranto i chiavistelli dei manicomi puntando a inserire le persone nella società, a fianco di altre persone. Considerando la malattia mentale, in tutto l’ampio ventaglio delle sue manifestazioni, anche come una malattia sociale indotta da ingiustizie e squilibri che vanno a turbare l’equilibrio organico e psicologico dei soggetti coinvolti — sorta di cartine tornasole, anche in forza di una sensibilità delicatissima, delle fratture che dissestano la società —, Basaglia ha sempre ritenuto necessario permettere alle persone, prima rinchiuse e maltrattate nei manicomi, di avere una loro vita libera, una casa e un lavoro che le riqualifichi e le sostenga. Tutto questo sempre con l’assistenza e l’appoggio di servizi operativi 24 ore su 24 e di figure professionali preparate, sensibili e accoglienti. Per una lunga serie di ragioni, non ultima quella finanziaria, la legge 180 da una parte ha tardato a dare tutti i suoi frutti, arrivando alla chiusura dei manicomi appena nel 1999 e dall’altra non è riuscita a concretizzare i suoi assunti con l’offerta di tutti i servizi previsti nel suo quadro normativo. Di qui l’esigenza di avviare una nuova riforma.
Gli antichi spiegavano la “malinconia” con un eccesso di bile nera nell’organismo, predisponendo medicamenti a base di erbe e di salutari pratiche di vita. Se il Medioevo si pone in continuità con questa impostazione, alle soglie dell’epoca moderna iniziano gli studi che connettono questo “morbo” dell’anima e del corpo al sistema nervoso. Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell”800 si fa strada, con psichiatri e scienziati come Pinel ed Esquirol, la convinzione che la depressione abbia radici psicologiche e mentali molto più profonde di quanto si sia mai creduto e si arriva a concepire come cura di manie e malinconie lo strumento del teatro. Tutti i manicomi dovrebbero essere provvisti di un teatro e di un guardaroba con abiti di ogni genere; i medici e gli infermieri dovrebbero imparare a recitare così da smantellare le fissazioni dei pazienti con messe in scena liberatorie e catartiche, proposte come verità agli ammalati. Via via che la scienza progredisce si individuano le complesse radici organiche della depressione e, ferme restando la fitoterapie con tutte le altre cure cosiddette alternative come l’omeopatia e le buone pratiche di vita, nel corso del XX secolo assurgono a dominatori i farmaci psicoattivi che all’iniziano vengono accolti come rimedi prodigiosi. Grazie ad essi si possono risolvere casi anche molto resistenti che prima venivano rimossi, a costo di gravissimi e permanenti danni al cervello, con interventi come la lobotomia, lo shock insulinico e la terapia elettroconvulsivante comunemente nota come elettroshock.
Oggi vengono per lo più proposte terapie miste: farmaci, stile di vita sano, mantenimento di un equilibrato circuito di relazioni sociali e soprattutto la psicoterapia. Basaglia ha visto giusto, rivoluzionando con un intuito profetico il mondo della psichiatria e riplasmando anche le coscienze per secoli asservite a un’ideologia persecutoria nei confronti delle perone “malinconiche” nate sotto l’influenza del tetro e solitario Saturno. Oggi i pregiudizi del passato ci fanno inorridire, specie se pensiamo alle torture e alle scomuniche senza appello che subivano gli ammalati nel passato anche recente. Oggi per noi è norma inconfutabile e naturale della società aprire le proprie maglie a tutti quei soggetti che ingiustamente, a causa di una malattia che non ha nulla di diverso dalle altre, per secoli sono stati ghettizzati e torturati. Il “folle” non fa più paura perché ci è stato insegnato, specie dalla cultura e dal pensiero del Novecento di cui Basaglia è stato ispirato interprete, che in tutti vi è una radice di “follia” e che la depressione e tutte le malattie nervose sono curabili come le altre malattie e non hanno nulla di spaventoso e di discriminante. Fanno parte di noi, vi viviamo accanto, ci siamo dentro anche noi, in quanto umani e sempre fallibili. Certo qualche pregiudizio rimane e per questo è importante lavorare anche sul piano delle idee e delle visioni della realtà. Homo sum. Nihil humani a me alienum puto, scriveva il commediografo latino Terenzio: “Sono un uomo. Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. Una massima valida per ogni tempo e da incidere nei nostri cuori spesso tardi, pigri e indifferenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *