Si può vivere senza bellezza?




La domanda in questi ultimi tempi torna sempre più spesso, in modo radicale, e non per motivi finemente intellettuali: si può vivere senza bellezza? Immaginiamo che qualcuno dirà subito: “dipende da che cosa si intende per bellezza’”. Ma proprio questa risposta, in realtà, non fa che rendere più urgente la domanda. Abituati ad essere circondati dalla bellezza in tutte le sue forme, tanto naturali, quanto costruite, dal momento che siamo nati e cresciuti in una civiltà edificata – letteralmente – sulla bellezza, non riusciamo a comprendere come mai il nostro tempo ne senta così tanta nostalgia. Eppure, se solo siamo sinceri con noi, l’assenza del bello è una delle grandi e più serie mancanze nel nostro tempo. Nella cultura mitteleuropea, la bellezza, “das Schőne”, ha avuto sempre un posto di rilievo, dalle Lettere sull’educazione estetica di Friedrich Schiller alle riflessioni viennesi di Franz Schubert, la ricerca del bello ha permeato la nostra filosofia di pensare e di vivere in comune, la nostra musica e il nostro linguaggio pubblico, persino i nostri rapporti sociali. Di più: come qualcuno ha abbondantemente detto e scritto, la storia dell’arte figurativa occidentale dall’alba del Medioevo fino alla modernità, osservata nel suo svolgersi, è stata nient’altro che un trionfo armonico di forme, luci, riflessi e colori alla ricerca continua della bellezza senza-fine, una corsa entusiasmante a fare della contemplazione estetica qualcosa che rendesse la vita degna di essere vissuta. Naturalmente, Dio non è stato affatto estraneo a tutto questo processo: ancora pochi decenni fa, un nostro contemporaneo, il pittore bielorusso – non cattolico – Marc Chagall poteva dichiarare candidamente che “per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che è la Bibbia”, confessando quindi senza mezzi termini – da artista – l’origine ultimamente religiosa dell’arte occidentale, compresa quindi quella mitteleuropea. Poi è successo qualcosa, o forse sarebbe più esatto dire che già l’osservazione di Chagall nella seconda metà del secolo scorso si riferiva a un mondo passato, a generazioni di artisti in ogni caso precedenti alla sua. Il punto oggi, però, è che non è solo l’arte classicamente intesa ad avere tradito la bellezza ma tutta la filiera della cultura centro-europea impegnata – tanto popolare quanto colta – presente nelle nostre società: dal cinema al teatro, dalla musica all’architettura. Dagli spettacoli pensati per i più piccoli alle esposizioni itineranti dell’ultimo artista emergente proposte dalla critica meno conformista è come se la nostra fame di bellezza non riuscisse a venire mai appagata, anzi venisse sistematicamente trascurata con il risultato di crescere a dismisura ogni volta di più. Schubert diceva che già ai suoi tempi si notava il bisogno di una ‘educazione estetica’, di una pedagogia pubblicamente riconosciuta e sostenuta, cioè, che avesse come scopo quello d’infondere “l’amore della bellezza” ai più giovani. Forse aveva intuito che il canone dominante ricevuto in eredità – l’idea cioè che la bellezza vera possieda un valore oggettivo e definitivo, non opinabile, secondo confini e ambiti specifici – non sarebbe durato ancora per molto. In effetti è soprattutto negli ultimi due secoli che la produzione artistica è andata sempre più in crisi, congedandosi dagli antichi fasti. Contemporaneamente, sono successe anche molte altre cose che di certo non hanno aiutato: culturalmente si è affermata – ad esempio – un’idea sempre più museale di arte per cui l’artista si è progressivamente distaccato dalla vita reale, come se il suo ambito naturale di lavoro fosse la galleria specializzata o il museo di un certo tipo e non il pubblico generale della società. Nello stesso tempo la secolarizzazione sempre più radicale ha fatto sì che la principale committente di bellezza di sempre – l’istituzione ecclesiastica – uscisse definitivamente di scena per fare il posto ai mecenati privati, che hanno portato quindi sul palco le loro personali ideologie, materialiste, relativiste o nichiliste che fossero. Ancora, l’artista ha perso – ammesso che lo conservasse ancora – il suo proprio fine morale ed educativo: se il nostro Alessandro Manzoni ancora ai primi dell’Ottocento poteva dire di aver scritto i Promessi sposi “per fare un po’ di bene”, una motivazione del genere sarebbe suonata probabilmente assurda in bocca a un qualsiasi altro scrittore di media-fama del secolo scorso, per non parlare dei contemporanei. E’ stata quindi la volta degli sperimentalismi e poi delle avanguardie estreme, infine dei provocatori di professione, all’insegna del nuovo motto “se vuoi la fama, dai scandalo”, perché più lo scandalo è grande, più in giro se ne parla naturalmente. In tutto questo discorso bisognerebbe poi accennare anche alla moda e l’abbigliamento di tendenza in genere che – in paragone alla sua recentissima diffusione su scala – ha avuto un impatto assolutamente straordinario sul gusto estetico delle giovani generazioni come mai si era visto prima al punto che ci siamo dimenticati in un baleno che un tempo anche i tedeschi e gli svizzeri avevano un loro modo particolare di vestire rispetto agli italiani, per esempio, ma ultimamente è quasi del tutto scomparso a meno che non andate tra le piccole e sperdute comunità montane dove le differenze da questo punto di vista si notano ancora, e comprensibilmente ci tengono anche a mantenerle.

Torniamo quindi così al punto di partenza, e alla lezione di Schubert: contrariamente a quanto potrebbe suggerire l’emotivismo da quattro soldi trasversalmente diffuso ai nostri giorni, il gusto del bello si forma certamente su una base naturale ma ha bisogno poi di essere costruito e sviluppato con tempo, fatica e pazienza, quindi adeguatamente argomentato, insomma, in una parola: ‘educato’. Dopotutto, il segreto nascosto dell’arte è questo: il bello nasce sempre dalla fatica e dal lavoro costante e non è mai questione di un solo attimo. Occorre del tempo e anche un po’ di silenzio per realizzare, come per gustare appieno, la vera bellezza. Ecco, se si cominciasse forse a tenere fermo questo – che la bellezza e il silenzio sono collegati intimamente l’uno all’altro, e uno ha bisogno dell’altro – forse potrebbe nascere ancora uno Schubert da qualche parte. Poi, servono chiaramente anche molte altre cose perché Schubert venga conosciuto, stimato e si affermi, ma senza l’educazione alla bellezza come fondamentale virtù morale e senza l’apprezzamento della dimensione naturale del silenzio, è quasi sicuro che non nascerà mai. Giusto per restare a quel che conosciamo, s’intende. Perché poi i miracoli più incredibili possono succedere sempre e in ogni momento, si capisce, ma non è il nostro campo.

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