Se dei cioccolatini provocano una crisi politica. Belgrado e Zagabria ai ferri corti




Chi è stato a Dubrovnik sa bene che questo piccolo tesoro della costa dalmata è da sempre una delle bellezze storiche e artistiche più rappresentative e straordinarie dell’altra parte dell’Adriatico al punto da essere nota semplicemente come ‘la perla’. Tutti gli altri, invece, la conoscono perché tristemente proprio qui, nella sanguinosa guerra civile che segnò la fine della  Jugoslavia, ebbe luogo una delle battaglie più cruente e significative con le forze serbe che assediarono per mesi la cittadina bombardandola a lungo e tagliando per settimane acqua, elettricità e telefono. Così, per ricordare la liberazione della città il Presidente della Repubblica croato, la signora Kolinda Grabar-Kitarovic, nel venticinquesimo anniversario di quei fatti, vi si è recata nei giorni scorsi vistando tra l’altro delle scuole, dove ha regalato ai bambini presenti delle tavolette di cioccolata. Solo che le barrette in questione provenivano dalla Serbia, dove erano state prodotte, recando la scritta inequivocabile “Made in Serbia”, con la specificazione dell’origine geografica (Subotica) e i primi ad accorgersene sono stati i genitori dei piccoli che sono stati anche i primi a protestare energicamente con il loro Capo dello Stato. E la protesta è stata talmente seria che la Grabar si è dovuta scusare pubblicamente, asserendo ‘a sua discolpa’ che lei stessa comunque promuove da sempre convintamente l’acquisto di prodotti croati e che in ogni caso una cosa del genere non sarebbe più accaduta. Fin qui i fatti. Che hanno avuto tuttavia una serie di conseguenze impreviste tutt’altro che marginali: da Belgrado, per esempio, appena saputa la notizia si è pronunciato nientemeno che il Presidente della Repubblica serba, l’omologo della Grabar, Tomislav Nikolic, che si è detto letteralmente “scioccato” per il comportamento della sua collega, aggiungendo che personalmente quando compra qualcosa non guarda mai al luogo di provenienza ma piuttosto alla qualità del prodotto. E ancora più duri sono stati alcuni ministri dell’esecutivo locale che hanno fatto intendere che faranno scontare la cosa, dando della razzista al Capo dello Stato croato, altro che disgelo politico.

Ora, l’episodio per quanto incredibile, o addirittura surreale, possa apparire ad alcuni osservatori esterni, in realtà ci dice e c’insegna nel suo piccolo diverse cose importanti che spesso nelle cronache superficiali dell’attualità perlopiù sfuggono. La prima è che la memoria dei popoli è una cosa seria e con l’identità non si scherza. L’assedio di Dubrovnik, per chi lo ha vissuto, è stato un trauma che non dimenticherà mai, e i bambini che lo hanno attraversato si porteranno dietro questa ferita per molto ma molto tempo, senza parlare di chi è stato testimone diretto di crimini efferati di guerra. Per prendere un paragone simile, e calzante, ammettiamo che qualcosa del genere accada ai polacchi mentre rievocano il dramma dell’occupazione sovietica o agli armeni mentre ricordano il Metz Yeghèrn: cioè che proprio nel giorno del ricordo il loro capo di Stato regali ai bambini polacchi dei prodotti russi o agli armeni dei prodotti turchi. Pensate che lo troveranno divertente? O che le famiglie delle vittime possano fare spallucce e dire come nulla fosse che tanto un prodotto vale l’altro e non è il caso di starsi a preoccupare visto che oramai sono cose passate? Il punto è che anche quando si perdona il nemico – cosa che il cristiano deve fare sempre – e magari si prega anche per lui, restano comunque vive dimensioni sensibili come il rispetto, la memoria e l’identità appunto. Tanto è vero che nell’episodio della discordia la protesta è venuta direttamente dalle famiglie, non dagli ultras nazionalisti delle curve allo stadio. La seconda lezione di questa storia, poi, per rispondere anche all’affermazione di Nikolic, in sé condivisibilissima, è che persino il commercio in tempi di globalizzazione non perde comunque la sua anima agli occhi dei consumatori. Certo, è vero che qualità e costo sono solitamente le prime due variabili economiche in ordine d’importanza per i mercati ma dietro i mercati ci sono sempre le persone in carne e ossa e ogni persona dopotutto agisce e si comporta – anche nelle attività meno nobili – secondo determinati modelli e valori culturali e comportamentali che marcano significativamente il suo immaginario simbolico personale. Altrimenti, per dirne una, interi settori imprenditoriali legati alla valorizzazione spirituale della nostra comune umanità come ad esempio il turismo (cioè, per essere ‘coerentemente’ brutali, pagare e perdere tempo per vedere una cosa che tanto potresti vedere in foto o in tv senza sprecare troppe fatiche) non esisterebbero. Insomma – ed è l’ultima considerazione – questa storia c’insegna anche che i conflitti culturalmente connotati tra idee, memorie e identità dei popoli, anche se sembrano robe lontane, astratte o intangibili per chi segue allegramente il leggero ‘così fan tutti’ della società liquida, non sono mai ‘questioni private’ di marginale importanza ma hanno sempre anche dei significati e dei risvolti civili e pubblici, nel senso che vanno a toccare in ogni caso ambiti socialmente rilevanti perché dicono, o contribuiscono a dire, che cosa questo o quel popolo è oppure non è, caratterizzando decisamente il suo identikit collettivo. Per questo, in definitiva, la rivolta popolare dal basso è stata così forte e la Grabar-Kitarovic ha dovuto scusarsi suscitando a sua volta la crisi politica con Belgrado: perché, alla faccia di ogni e qualsiasi globalizzazione dell’omologazione da quattro soldi, quella scatola di cioccolatini – in quel giorno, a quei bambini – non era, con tutta evidenza, solo una semplice scatola di cioccolatini.

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