Quei cristiani siriani in prima linea per combattere lo Stato islamico




“Fuck Raqqa, Fuck Raqqa!” ci dice un soldato poco più che ventenne nelle uniche parole in inglese che conosce appena entriamo dentro il quartiere generale delle truppe cristiano siriane che stanno combattendo casa per casa per conquistare quella che era la capitale dello Stato islamico.
Siamo dentro Raqqa, nella parte occidentale della città liberata dalle forze curdo siriane del Nord della Siria. Il panorama è desolante: ricorda quello visto solamente in qualche documentario su Berlino nel 1945. Come nella Germania nazista, anche lo Stato Islamico, o quel che ne rimane, si aggrappa alle ultime risorse e arruola giovanissimi militanti di quattordici o quindici anni che manda allo sbaraglio in operazioni suicide contro i soldati nemici. “Siete il futuro dell’Islam,” li dicono convincendoli e ingannandoli per mandarli a morte sicura.
“Daesh ci scaglia contro ragazzini e civili con delle cinture bomba nascoste,” ci racconta Kino, un portavoce delle forze militari cristiano siriache (MFS), più di mille soldati incorporati nelle SDF, le forze curde supportate dagli Stati Uniti. “Utilizzano i bambini e civili come scudi umani. Facciamo il massimo per prevenire le morti dei civili ma al momento è estremamente complicato”. È una guerra cruda, misera che non risparmia nessuno, nemmeno i bambini.
Ci invitano ad andare con loro al fronte, nella parte più vicina alle ultime postazioni delle bandiere nere. L’immancabile crocifisso sul cruscotto della macchina e un santino di Gesù Cristo orgogliosamente esposti fanno capire la determinazione di questi giovanissimi soldati a non voler nascondere la propria fede davanti a coloro che hanno commesso un vero e proprio genocidio nei confronti della loro popolazione, violentando e stuprando quelle terre culla della cristianità.
Macerie su macerie, edifici sventrati. Solo le colonne portanti sono rimaste in piedi. Il resto è stato squarciato senza pietà dalla battaglia combattuta per conquistare anche soli pochi metri. Il suono dei bombardamenti ci accompagna per tutto il tragitto. Alcuni superstiti camminano al lato della strada dove pick-up e autoblindo sfrecciano per andare o tornare dal fronte.
Parcheggiamo il veicolo sotto quello che ci viene detto era un hotel, ora impossibile da riconoscere. Attraversando un piazzale con un silenzio assordante, ci viene detto di seguire esattamente i passi dei soldati. Due giorni prima un loro compagno è saltato in aria su una mina a qualche metro da dove ci troviamo. La zona non è stata bonificata e alcune mine si trovano ancora nascoste sotto i sassi.
Dentro un edificio, ci ripariamo dietro una tenda nera che ci copre dai famigerati cecchini ceceni dell’ISIS. Dalla postazione si riescono a vedere i tetti di quella che una volta era una città.
“Noi combattenti cristiani siamo orgogliosi di non essere fuggiti. Siamo cristiani e queste terre ci appartengono. Non potevamo fare altro che imbracciare i fucili per combattere onorando i nostri padri e dando un futuro ai nostri figli a casa nostra!” afferma quasi commosso il soldato Matthew, nome di battaglia in onore di Matteo l’evangelista.
Mentre lo intervistiamo, improvvisamente si sente un boato assordante. L’aria si muove e ci accasciamo per ripararci. A poche centinaia di metri da noi è esplosa un auto bomba. Il cielo sopra Raqqa diventa nero dal fumo. Dalla radio apprendiamo che l’attacco suicida era diretto proprio contro un appostamento cristiano.
Ci dicono che è meglio tornare indietro. Si sentono sparare dei colpi. I soldati ci fanno mettere in coda uno ad uno e correndo riattraversiamo il piazzale. Vediamo rapidamente tra le macerie una scarpetta con un fiocco rosa, chissà se persa di corsa da una bambina in fuga, o posizionata dai miliziani neri collegandola ad un esplosivo. Ci raccontano che vi sono numerose trappole lasciate vigliaccamente dai fondamentalisti islamici per mietere ulteriori vittime: bibbie, giocattoli per bambini e passeggini collegati ad esplosivi pronti per uccidere.
Al ritorno nel quartier generale, incontriamo le famose combattenti donne cristiane appena tornate dal fronte. Sorridono malinconiche. Nei loro occhi medio orientali si nota un misto di orgoglio e tristezza allo stesso tempo. Le donne siriane, curde, cristiane o yazide, abbracciando le armi e facendo vedere al mondo intero che anche loro potevano combattere e soffrire al fianco degli uomini al fronte, hanno contribuito molto di più alla lotta per i diritti delle donne che decenni di femminismo occidentale.
Lasciamo Raqqa al tramonto. L’orizzonte devastato è interrotto solo da un minareto di una moschea che nessuno ha osato abbattere nemmeno durante i combattimenti. Appena fuori la città scorgiamo dei bambini giocare saltando la corda sui tetti.
Proprio da questi bambini, senza istruzione da più di sei anni e abituati a vedere quotidianamente esecuzioni pubbliche e torture, la Siria dovrà ripartire per garantirsi non solo un futuro politico ma soprattutto un futuro da esseri umani.
di Marco Gombacci
Fonte: http://www.occhidellaguerra.it

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