Quale Critica?




Impervio e scivoloso è il crinale su cui si muove la critica letteraria. Essa ha radici antichissime e, fin dalle origini del gesto letterario, si è posta il fine di illuminare i significati, i valori e le tecniche delle più diverse opere. A seconda dei metodi adoperati e della visione del mondo che via via l’ha ispirata, essa ha costruito il suo personale osservatorio estetico, esistenziale e storico. Martedì 21 novembre, presso la Libreria Lovat, il prof. Raul Mordenti ha presentato il suo libro I sensi del testo. Saggi di critica della letteratura (Bordeaux editore, 2017). Questa occasione ci sollecita ad alcune riflessioni.
Abbiamo definito “impervio” e “scivoloso” il terreno in cui si radica l’azione critica, per sua natura molto delicata ed esposta a numerosi errori di prospettiva generati dalla personalità stessa del critico, dall’influenza che una determinata epoca ha avuto sui suoi metodi e strumenti interpretativi e dall’adesione più o meno ristretta e rigidamente osservante di un’ideologia. Basta guardare alle correnti che hanno attraversato il Novecento. Partendo dal presupposto che ogni scrittore, a partire dai primordi della letteratura, ha naturalmente incorporato nella sua opera una riflessione latente sui propri metodi di elaborazione del testo, se puntiamo lo sguardo su scenari a noi più vicini, vediamo susseguirsi molteplici ideologie sconfinanti spesso in ideologismi. La critica letteraria è molto antica e antecedente ad ogni formalizzazione separata e specialistica. Essa compare inizialmente come parte dell’opera letteraria in cui l’autore medita sul proprio scrivere nel momento stesso in cui è rapito dalla potenza creativa. La critica qui è ancora arte che parla dell’arte, creazione nella creazione, esempio ante litteram dell’intuizione folgorante di un poeta moderno come Charles Baudelaire, sostenitore dell’idea che a possedere le chiavi di un’opera siano solo il suo creatore o un altro artista ben addentro ai fuochi dell’atto creativo. Di questo sguardo dello scrittore alla propria scrittura in cui il critico e l’artista sono la stessa persona, abbiamo illustri esempi passati. Pensiamo ai testi della letteratura classica greca e romana, alle riflessioni di Dante, Petrarca e Boccaccio sul proprio scrivere e alle interrogazioni divertite da parte dell’Ariosto nel giustificare i suoi voli fantastici nell’“Orlando furioso”. Una prima definizione separata del ruolo della critica la dobbiamo ad uno degli astri della moderna critica letteraria quale è stato il critico, poeta e saggista britannico Samuel Johnson (1709-1784), fine ricercatore della fragranza squisitamente estetica della scrittura. Ma solo a partire dal 1800 si approda ad una definizione via via più circoscritta dell’ambito esclusivo dell’esercizio della critica testuale. Se la critica positivista — quella elaborata da Hippolyte Taine (1828-1893), critico francese del naturalismo letterario ispirato alla filosofia positivista di Auguste Comte (1798-1857) — fa del testo una specie di macchina alimentata nel suo movimento dai principi di race (razza, o condizionamento genetico), milieu (ambiente, contesto di vita) e moment (momento storico), la critica idealista del primo Novecento — Benedetto Croce, Renato Serra e Giovanni Gentile — si muove sul versante opposto, valutando l’essenza della creazione letteraria in base alla sua esclusiva specificità che è quella di creare un universo autonomo di nuclei lirici e di respiri spirituali negati dalla critica marxista, imprigionata in una visione sociale, storica e politica della letteratura. Quest’ultima trovò una vasta argomentazione e sistemazione nella visione di Antonio Gramsci (1891-1937) centrata sul ruolo principe dell’intellettuale organico alla società nell’individuazione e nella risoluzione dei conflitti e delle distorsioni dei rapporti di classe. Non meno determinante è stata la critica psicoanalitica irrorata dalla visione di Sigmund Freud (1856-1939): l’opera letteraria, secondo questo metodo di indagine, è luogo di rappresentazione e di svolgimento delle pulsioni profonde e degli istinti segreti dello scrittore in lotta con le leggi e con le imposizioni della realtà. Principio del piacere contro principio di realtà: intorno a questi due poli opposti ma complementari si muove lo scrittore, specie di spola che corre inquieta e sempre irrisolta da una parte all’altra del suo telaio esistenziale e letterario.
In tempi a noi più vicini ha preso piede una critica centrata esclusivamente sulle strutture e le strategie formali del linguaggio letterario, in se stesso produttore di senso e di visioni della vita: si tratta dello strutturalismo e della semiologia, che da una parte hanno versato linfe nuove nel mondo della critica, ma dall’altra hanno esposto quest’ultima al rischio di prosciugarsi e inaridirsi, riducendo la scrittura al nudo scheletro delle sue costruzioni e riportando quei palazzi e quelle cattedrali che sono le grandi opere letterarie allo stato di un cantiere fatto di impalcature e di ancora spogli abbozzi architettonici in via di definizione.
Una tipologia critica, esistente sin dall’antichità e che è serpeggiata lungo i secoli ora apparendo qua e là in frammenti e nuclei isolati, ora fondando un organico metodo di lettura, è quella ermetica che si pone in ascolto dell’ispirazione pura dello scrittore, in una sorta di identificazione con lo slancio genuino dell’avventura creativa. Un critico oggi molto amato e seguito, nemico di ogni forma di accademismo e di pregiudizio ideologico, è lo statunitense Harold Bloom (1930) che ha messo a punto un approccio al testo — esteso anche al Libro sacro considerato nella sua stratificazione estetica e letteraria, molto più elaborata e consapevole di quanto comunemente si creda — concentrato sul valore estetico puro dell’opera, separato ed autonomo rispetto alle contingenze storiche, politiche e ideologiche. Leggendo le sue opere, pur riconoscendo al loro autore una straordinaria cultura e conoscenza letteraria, si avverte una eccessiva frammentazione dell’auscultazione critica, priva di quel respiro più vasto e unificante che la creatività umana infonde alle proprie opere e che contribuisce ad arricchire il lettore con prospettive di senso e domande profonde. Osservazioni sparse, sempre molto dotte e preziose, si innervano qua e là in una prospettiva priva di punti cardinali, prigioniera di un certo impressionismo erudito e a volte peregrino.
Ciò che qui ci interessa osservare è che, all’interno del recente dibattito critico, ha assunto via via più visibilità e consistenza una nuova percezione del testo sacro, il grande codice dell’Occidente come lo ha chiamato il critico canadese Northrop Frye (1912-1991). Se ancora oggi la maggior parte delle persone vede giustamente nella Bibbia un libro diverso da tutti gli altri e finalizzato alla rivelazione e al nutrimento spirituale di quanti ad esso si affidano, anche in ambito teologico si è tuttavia affermata una nuova consapevolezza del suo valore anche estetico e squisitamente letterario. Il piano dei significati infatti è inseparabile — secondo le intuizioni della esegesi più avvertita — dal piano del significante: ciò che si dice è condizionato dal modo con cui lo si dice, ovvero, i contenuti vengono esaltati ed illuminati da particolari strategie poetiche e linguistiche che rivelano negli autori una consapevolezza estetica e una padronanza espressiva molto sofisticata e matura.
Il testo sacro non è solo un documento religioso che ha fondato e fonda tuttora la visione della vita dell’Occidente, ma un’opera di raffinata letteratura e poesia in cui gli autori hanno riversato anche la loro sapienza formale, tecnica e linguistica. Di qui i diversi approcci interpretativi che passano in rassegna i modi della comunicazione, dall’originale ebraico fino al più tardivo testo greco: la lettura in lingua originale è la più indicata in quanto riesce a radiografare l’orchestrazione formale del testo, spingendo la sonda critica ancora più a fondo nel suo messaggio stratificato e polifonico. Il gioco delle sonorità, le onomatopee, la costruzione ad ondate, il ritmo della frase, le metafore, le allusioni, la concretezza corposa e l’estraneità completa verso ogni forma di astrazione costituiscono solo alcuni dei beni di quell’immenso tesoro poetico ed estetico sotteso al testo, opera di autori preparati e sempre sorvegliati. Contrariamente al luogo comune che riduce il testo della Bibbia ad un dettato ingenuo, semplice e a volte anche rozzo e primitivo nella costruzione grammaticale e sintattica sfilacciata da continue incoerenze e contraddizioni (solo apparenti), fioriscono oggi innumerevoli studi e saggi che incorporano il piano teologico con il piano estetico, inseguendo quei continui sconfinamenti dall’uno all’altro che illuminano più in profondità il messaggio, lo esaltano e lo fanno fiorire in tutte le sue miniere di significati. Un’interpretazione infinita, è logico, essendo infinita la riserva di significati del testo. Questa prospettiva ci invita ad un nuovo modo di incontrare il Libro e di dialogare intimamente con i suoi universi arrotolati l’uno nell’altro, indefinitamente, fuga rapinosa di corridoi tromp d’oeil e di scenografie che sprofondano verso un punto prospettico eternamente in viaggio verso l’Oltre. Con un nuovo ruolo di chi legge, da spettatore ad attore, convocato sulla scena per far vivere in ogni attimo le infinite anime dell’universale anima della Parola divina.

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