Pontiggia e Svevo




La sorte a volte non è stata clemente con i grandi scrittori. Ad esempio, Italo Svevo: il riconoscimento del suo lavoro è stato tardivo, quando lo scrittore aveva da tempo esaurito l’euforia e lo slancio giovanili. Per questo lo scrittore triestino, quando la buona stella cominciò a brillare anche per lui, non si lasciò accecare dall’improvvisa notorietà ma preferì indossare, come da tempo ormai faceva, gli occhiali schermati dell’ironia.

Ci volle comunque ancora del tempo perché la critica mettesse a punto uno studio approfondito sui suoi scritti. Uno dei primi fu lo scrittore Giuseppe Pontiggia (Como, 1934 – Milano, 2003), che nel 1959 concluse i suoi studi accademici presso la Cattolica di Milano con una tesi sulla tecnica narrativa di Svevo. Trovò un terreno vergine, che la critica aveva appena cominciato ad arare e i cui semi dovevano ancora germogliare e crescere. Pontiggia, con abilità, finezza ed intuito, si mostrò bravo mietitore e aprì un nuovo e originale filone di studio e ricerca.

Questa affinità, che rese possibile il lavoro critico del laureando Pontiggia, si è tradotta successivamente in una vicinanza e in un continuo dialogo con il problematico mondo narrativo di Svevo, a giusto titolo considerato uno degli esponenti più interessanti della cultura e letteratura della “crisi”. Lo scrittore comasco infatti, nei suoi romanzi più noti e tempestivamente riconosciuti dalla critica — “L’arte della fuga” (1968), “Il giocatore invisibile” (1978), “Il raggio d’ombra” (1983), “La grande sera” (1989), opera che lo consacra narratore di gran talento anche presso un più vasto pubblico e che gli guadagna il Premio Strega —, costruisce un edificio tematico e narrativo che rielabora in una forma molto originale numerosi spunti sveviani. Logicamente questa rielaborazione implica anche un adattamento alle mutate condizioni storiche e culturali.

Vicino per molti aspetti al cinismo e al disincanto di Moravia, Pontiggia si presenta nelle vesti di osservatore lucido e disilluso di un mondo ripiegato su se stesso, privo di luce, di passione e di ideali. Senza indulgere in complesse analisi interiori, flussi di coscienza o divagazioni descrittive, lo scrittore procede con l’obiettività di uno scienziato che scruta al microscopio i comportamenti di una “specie” in via di estinzione: l’umanità al crepuscolo, un piccolo popolo falcidiato dalla propria inerzia e vecchiaia spirituale, tenuto in vita solo da un cieco impulso autodistruttivo.

L’uomo, ad un certo punto della sua storia, ha voluto sottoporre la propria vita, i propri ideali, i propri sogni, ad una radicale operazione di potatura purtroppo finita male. Nell’eccitazione per una presunta libertà ritrovata, questa azione di “igiene” spirituale è degenerata: la potatura infatti ad un certo punto è divenuta furore distruttivo e l’uomo, accecato da questa falsa libertà, ha finito per “potare” anche se stesso, mutilandosi di molti “organi” vitali e dissanguandosi. Comincia qui il tramonto dell’Occidente, di cui quest’umanità esausta ed esangue è figlia.

Prendiamo come campione il romanzo “La grande sera”. Tra le sue pagine succede tutto e non succede nulla: tutto perché in gioco è la vita delle persone, la loro ricerca di alternative ad un’esistenza ripetitiva e stanca; nulla perché tutti i personaggi sembrano girare su se stessi, come tante stelle fredde che sbandano qua e là nell’immenso vuoto senza più un centro. Nessuno di loro ha più un progetto, un sogno, un sussulto di ripresa, di volontà. Catturati negli ingranaggi della burocrazia, nei lunghi tempi morti della vita d’ufficio, meschini, a volte miserabili nella loro stessa ricchezza, nauseati dalla ripetizione di gesti, parole e riti snervanti.

Non esitano a tradire e a loro volta non provano più nulla neanche nel sapersi traditi. Sono come dei malati che non vogliono guarire perché in un modo un po’ perverso si sono affezionati anche ai loro malanni. Nei loro uffici, nelle loro case prive di amore e lealtà, nella pigrizia che si accumula sulle loro scrivanie sotto forma di carte e progetti che mai si realizzeranno, questi uomini disumanizzati hanno trovato un loro tragico equilibrio. Ogni movimento in più o diverso dall’ordinario li scuoterebbe troppo, li renderebbe consapevoli dello stato di paralisi e astenia in cui si sono rifugiati. Farebbe troppo male, come un raggio di sole in un mezzogiorno di agosto che trafigge un occhio da secoli avvezzo solo al buio.

Nonostante il ritmo della narrazione si adegui al ritmo interiore di questi “fossili” umani pietrificati nel loro limbo senza tempo, il romanzo si legge con avidità.

Come può andare a finire una storia come questa? Ci sarà pure una svolta come in ogni buon romanzo! E invece non succede niente. Questo niente è il grande punto di domanda. Dà persino sollievo, perché ti fa capire con chiarezza e forza come la nostra vita non andrebbe mai vissuta. Una sorta di effetto catartico, in un mondo che non si può neanche chiamare tragico perché non ha più passioni.

La “Grande sera” è quella che avvolge l’umanità dopo che è stata dichiarata la “morte di Dio”. I personaggi qui camminano tutti con gli occhi volti verso il basso e quasi si sono dimenticati che sopra di loro esiste la volta celeste, il firmamento, il sole. Solo città, strade, grattacieli, appartamenti in ombra dove marito e moglie sono solo due coinquilini la cui unica soddisfazione è ferirsi l’un l’altro, ben sapendo che niente cambierà, che nessuno dei due si sentirà mai offeso perché per sentirsi offesi bisogna amare.

Non esistono solo capolavori alla Tolstoj o alla Dostoevskij, che seguono la lotta della luce – la fede – con la tenebra del vivere, della morte e del dolore, attraverso grandi personaggi che ardono di violente passioni. Esistono anche dei libri il cui valore si misura sulla capacità dell’autore di mostrarci che cos’è la vita senza un orizzonte e una luce che la rischiari. La “grande sera” scende su tutti prima o poi, quando la vita è in secca e l’acqua sembra scomparsa negli abissi del mondo. L’importante è sapere che prima o poi quest’acqua ritorna, tanto più fresca e purificata quanto più profondamente si è immersa.

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