Pasqua al Museo




Anche quest’anno i Musei della nostra città, nella giornata di Pasqua, hanno raggiunto ottimi risultati. Niente da dire. È sempre un bene che la gente dimostri di apprezzare la cultura e di interessarsi all’arte. Ciò che tuttavia desta sconcerto è che la Pasqua sia sempre più una festa come tante altre, un giorno di riposo dal lavoro da dedicare allo svago.

Sentendo la gente parlare per le vie della città, nei caffè, alla fermata dell’autobus e nei negozi, i giorni immediatamente precedenti la festa di Pasqua, si ha l’impressione che ad essere “celebrata” sia una generica festa della primavera. Si parla di escursioni, di gite con gli amici, di viaggi e, nel migliore dei casi, di visite a musei e mostre. Si studiano i menù, i dolci da fare, si cercano nelle riviste di cucina suggerimenti per preparare in modo particolare la tavola e proporre agli ospiti un piatto nuovo, preferibilmente etnico.

Ma la Pasqua, la festa del Signore Risorto, dov’è in tutto questo? La grande celebrazione cosmica che ogni anno ci ricorda la morte della Morte e il trionfo della Vita quali orme lascia nelle nostre vite? Purtroppo sembra che alla gente piaccia sempre più “rimpicciolire”, rimanere chiusa nei dettagli contingenti del proprio esistere, come se dovesse vivere un eterno intorpidito presente di piccoli agi e di piaceri minimi. Gli occhi guardano sempre verso il basso o appena appena intorno, ma mai lontano o in alto. Fa paura la profondità del cielo! Meglio passare in rassegna vecchi oggetti e cimeli in bella vista dietro teche ben pulite. Premesso che tutto ciò che l’uomo crea di buono e di bello ha sempre – dico sempre – un significato anche spirituale (strumenti musicali, porcellane, rilegature di libri, oggetti di uso comune costruiti con piglio creativo e tutte le diverse opere d’arte), ciò che duole constatare è che oggi tutto, o quasi tutto, viene recepito come un particolare a sé, con una storia più o meno interessante, che le varie targhette ci raccontano in ogni museo che si rispetti. Provo un senso di oppressione e monotonia quando vedo la gente soffermarsi a lungo sulle spiegazioni regalando appena un’occhiata all’oggetto o all’opera in questione. I dati, quelli che vanno a rimpinguare l’erudizione, valgono più dell’opera. La cultura oggi viene sempre più scalzata dall’erudizione. La sapienza poi… Manca questo all’uomo moderno, questo strano uomo che nel giorno di Pasqua invece di onorare il tempio e i templi di Dio — e non parlo solo delle chiese, ma di tutto ciò che, sia anche una passeggiata silenziosa nel bosco o una lettura meditativa, ci fa dialogare con Lui —, onora solo il tempio dell’uomo e delle sue opere. Non è significativo questo?

La parola sapienza deriva dal latino “sapere”, “avere sapore”. La vera sapienza, che abbraccia l’intero essere corporeo e spirituale della persona, è la capacità di avvertire in ogni cibo, anche solo terrestre, quella spezia che rende ogni cosa degna di esistere e di essere conosciuta. Se manca l’occhio spirituale che cerca in ogni cosa il sottile ponte che lega il particolare all’universale, il contingente all’eterno, la rete aurea che lega il mondo in una compagine sensata – che solo Dio tiene in sé connessa – piano piano si smaglia, si disfa, si sfilaccia e rimane solo un cumulo caotico di frammenti al naufragio.

Io credo che il mondo e la vita stiano morendo perché pochi ormai vi ricercano le orme del sacro. L’uomo non solo ha sconsacrato la realtà e le proprie opere, i propri spazi profani – e i musei sono i loro custodi —, ma sta lentamente desacralizzando anche ciò che in se stesso è sacro. Innanzi a questo baratro perfino un filosofo pessimista e cupo come Heidegger, ad un certo punto della propria vita, ebbe ad esclamare: “Ormai solo un Dio ci può salvare”. Parafrasando Dostoevskj, viene da dire “La sapienza salverà il mondo”. La sapienza di Dio però, che è bella perché ha un senso che dà senso ad ogni cosa, e perché è vera e infonde verità alle speranze più alte del nostro cuore.

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