Omosessuali non si nasce. E nemmeno lo si diventa. Lo sbugiardamento di un mito falso in tutti i suoi dettagli




All’interno del Diploma di Perfezionamento in Bioetica, lo scorso sabato 29 novembre è stata aperta al pubblico la lezione sul tema “Teoria del Gender: storia e fondamenti”. Di seguito presentiamo un’intervista fatta alla prof.ssa Giorgia Brambilla (professore aggregato della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum), in occasione del suo intervento durante la seconda parte della lezione dedicata agli aspetti scientifici e bioetici dell’omosessualità.

Dalla differenza all’indifferentismo sessuale: quali sono le origini di questo dibattito?

Chi sostiene che non esista una vera differenza tra uomini e donne crede che il corpo è sì sessuato, ma questo non è determinante. Ciò che conta è come la persona si sente. E la differenza maschile/femminile sarebbe una differenza esclusivamente culturale, cioè gli uomini e le donne sono tali perché da bambini siamo stati educati così. Storicamente, vi è stata l’influenza di varie correnti. Per citarne alcune: il permissivismo edonista e il suo slogan “al sesso non si comanda!”; il pansessualismo di Freud che riconduceva le nevrosi e le sofferenze della personalità alle repressioni della sessualità; il rapporto Kinsey, secondo cui il sesso è un mero meccanismo legato a certi stimoli e dunque non ha senso dire in ambito sessuale che una cosa è sbagliata o che non è normale; la rivoluzione sessuale che ha portato a ridurre il sesso alla mera istintualità. Il filo conduttore consiste nell’idea che l’uomo debba essere liberato e che questo si possa fare attraverso la liberalizzazione del sesso.

Il neomarxismo poi, specialmente con Marcuse, ha esteso la liberazione alla sfera della eterosessualità, parlando di “libera scelta del sesso”. Quest’idea, insieme anche alla spinta ideologica di Simone de Beauvoir, è confluita nella costituzione dei cosiddetti “cinque generi”: maschile, femminile, omosessuale maschio, omosessuale femmina, transessuale. Il femminismo ha poi imposto l’idea che fosse proprio la differenza dei sessi a provocare l’inferiorità sociale della donna e che i ruoli dell’uomo e della donna, anche all’interno della famiglia – per nulla naturali ma solo culturalmente indotti – costituirebbero una grave ingiustizia. La vera conquista ideologica e sociale sarebbe il passaggio dal “sex” all’“unisex”. Ne fu emblema anche l’abbigliamento: jeans e maglietta vanno bene per tutti, maschi e femmine. Non ci sono punti fermi, non ci sono dati di natura, validi per l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Panta rei, tutto scorre: siamo arrivati a capire che il pensiero multigender ha un’eredità gnostica ed è intriso di relativismo.

Si è sessuati per natura o per “cultura”?

Fin dal concepimento siamo maschi o femmine e dal sesso genetico si forma il sesso gonadico, ormonale e morfologici e nel tempo anche il sesso psichico coerentemente con il sesso fisico, se nulla interviene a modificare questo sviluppo naturale. La sessualità, l’essere uomini o donne, è una dimensione costitutiva della persona, è un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano. Ritenere che la corporeità non abbia un peso nella realizzazione piena della persona, fino ad affermare una sorta di neutralità sessuale dell’individuo, ci fa cadere in una visione dualistica e riduttivista del corpo e della persona. La differenza sessuale è originaria e – sebbene l’ambiente educativo abbia un peso – precede l’educazione stessa e gli influssi culturali e genitoriali. Basta studiare lo sviluppo neurofisiologico del bambino per rendersi conto che le attitudini genere-specifiche sono innate e non derivano dal tentativo di corrispondere ad un genere “pre-impostato”. Chiunque ha figli o lavora con i bambini sa che il bambino si comporta “da maschio” o “da femmina” prima ancora di riconoscersi in un genere. E questo è dovuto a delle differenze a livello biologico innate che segnano una strada preferenziale nello sviluppo. Resettare queste differenze, come si vorrebbe fare nelle scuole attraverso un’educazione sessuale che considera il bambino una specie di “tabula rasa” nei riguardi della propria identità sessuata, non può che andare a discapito del bambino stesso: questa è la vera violazione dei diritti dell’infanzia oltre che una prepotente manipolazione dell’armonico sviluppo del bambino.

Alla luce di tutto questo, dove e come collocare l’omosessualità all’interno del quadro della sessualità umana?

Le affermazioni “quest’uomo è omosessuale”o “questa donna è lesbica” danno l’idea che la persona in questione appartenga a una variante della specie umana, diversa dalla variante eterosessuale. Le conoscenze di cui disponiamo ci indicano che le persone con inclinazioni omosessuali sono nate con la stessa dotazione fisica e psichica di chiunque altro e che omosessuali non si nasce. E neanche lo si diventa. Nelle mie lezioni insisto molto su questo aspetto. Semmai si può parlare di persone, uomini o donne, che hanno – a seconda dell’intensità – sensazioni, tendenze e/o comportamenti omosessuali. Sul piano epistemologico, infatti, non è possibile parlare delle diversità sessuali, ma solo della diversità sessuale, perché la diversità sessuale è una sola ed è irriducibile: quella tra uomo e donna. Sebbene, in maniera ciclica, spuntino sui giornali notizie, come in questi giorni, su basi genetiche dell’omosessualità, andando a fondo si comprende facilmente la realtà dei fatti: l’uomo e la donna con tendenze omosessuali sono un uomo o una donna per determinazione genetica e hanno tendenze omosessuali per acquisizione. Per van den Aardweg il fattore determinante per lo sviluppo dell’omosessualità è rappresentato dal rapporto intessuto con i propri simili all’inizio dell’età adolescenziale, rapporto che rappresenta una componente decisiva nello sviluppo della personalità, e cioè la visione che l’adolescente ha di sé come maschio o come femmina.

Una cattiva integrazione nel gruppo dei coetanei dello stesso sesso e un senso profondo di esclusione farebbero maturare nell’individuo frustrazione e quindi un complesso d’inferiorità quanto alla propria mascolinità o femminilità. Una realtà che, ci tengo a precisarlo, nasce dall’intimo della persona e non dall’esterno quasi fosse causata da esclusione o denigrazione. Gli atti discriminatori – che laddove ci fossero sono da considerare sempre e in ogni luogo deplorevoli – in realtà non causano questo complesso e vanno considerati in quanto tali. Invece, tale è la confusione nel dibattito, che siamo arrivati al punto che chiunque osi mettere in discussione slogan, proposte di legge, o proposte didattiche su questo argomento è messo a tacere a volte in termini ideologici, a volte con mezzi più meno intellettuali (basti pensare a quanto subiscono regolarmente le Sentinelle in Piedi o al linciaggio mediatico di questi giorni di alcuni insegnanti di Liceo), il tutto intriso di inestinguibile vittimismo dei militanti gay.

Che peso può avere sull’identità sessuata il rapporto con i genitori?

Oltre a quanto spiegato, mi permetto di aggiungere un fattore antecedente, quasi una “preomosessualità” che dipende dai genitori e, in particolare dal genitore dello stesso sesso secondo tre aspetti. Il primo riguarda la presenza della differenza. Ognuno di noi costruisce la propria personalità confrontandosi con identità e differenza. Da un lato il bambino comprende se stesso imitando il genitore dello stesso sesso, dall’altro osservando quello del sesso opposto. E questo avviene non solo a livello cognitivo, ma prima di tutto emotivo e affettivo: vedo e “sento” che mamma mi parla, mi coccola, gioca con me in un modo diverso da come lo fa papà e anche che mamma e papà si relazionano alle stesse persone, per esempio agli amici, in modi diversi. E non solo perché hanno caratteri diversi; perché noto che il modo di fare della mamma è molto più simile a quello della maestra piuttosto che a quello del nonno o dello zio. L’assenza di un genitore o la mancanza della diversità (come nel caso della “omogenitorialità”) ha dunque delle conseguenze, come spiegato da ampia letteratura sull’argomento.

Il secondo punto riguarda le abilità sociali. Saper giocare come giocano i coetanei dello stesso sesso aiuta ad apprendere le modalità relazionali tipiche dei pari e ad essere “riconosciuti” dai bambini dello stesso sesso. E il tutto avviene nella piena spontaneità. È esperienza comune arrivare in una classe della scuola dell’infanzia e trovare i bimbi che giocano divisi tra maschi e femmine. E questo non perché una “maestra omofoba” glielo ha imposto, ma semplicemente perché maschi e femmine hanno attitudini al gioco differenti. Si ricordi il flop dei vari esperimenti delle “Gender theories” di dare il camion alle bambine e le bambole ai bambini. Risultato? Le bambine giocavano con i camion a “mamma-camion” che cambia il pannolino a “baby-camion” e i maschi prendevano a “sbambolettate” i compagni. Dunque, il genitore giocando col bambino lo aiuta ad interagire con disinvoltura con i bambini dello stesso sesso, evitando quel complesso d’inferiorità che si genera in adolescenza che secondo vari studiosi sarebbe proprio alla base della genesi delle sensazioni omosessuali. Quest’ultime partono da una idealizzazione dei tratti riconosciuti come non propri degli individui dello stesso sesso fino all’attrazione erotica verso di essi.

Il terzo riguarda i genitori come coppia che si ama nel rispetto sereno e gioioso dei ruoli. Ruoli, tutt’altro che artificiali o svilenti – e meno che mai imposti! – che ancora una volta sono manifestazione naturale della propria indole di maschio o femmina nel rapporto con se stessi e con il mondo e mezzo per amarsi profondamente nell’accoglienza reciproca, proprio quella che non si spiega a parole ma che costituisce l’habitat in cui i figli sono immersi – mi passi il linguaggio – come dei pesci in un acquario. Diverse scuole di psicanalisi sottolineano, in merito alle principali cause riscontrabili all’origine dell’omosessualità il tema del padre assente. “Assente” è da intendersi non propriamente nel senso fisico di non presente, quanto piuttosto estromesso, il più delle volte dalla moglie, dalla vita familiare, espropriato del suo ruolo di capo forte e premuroso. Oppure denigrato o umiliato a parole o nei fatti dalla moglie stessa, spesso di fronte ai figli. E la “madre-tipo” che emerge è quella prevaricatrice nei confronti del marito, molto ansiosa e preoccupata, spesso dominatrice ma senz’altro molto insicura, proprio perché priva di qualcuno, un uomo, che la guidi e la sostenga.

di Maria Maset

Fonte: http://www.iltimone.org

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