“Non multa sed multum” Percorso sull’educazione nei testi platonici alla ricerca dell’idea del bene La tematica educativa viene affrontata da Platone direttamente o indirettamente in quasi tutti i suoi dialoghi non soltanto nella Repubblica, dove emerge di più l’idea di predestinazione sociale e dove l’istituzione famiglia non trova uno spazio ampio. Enrico Berti ricorda che due grandi filologi tedeschi, Werner Jaeger e Julius Stenzel, hanno mostrato come tutta la filosofia di Platone possa essere considerata una teoria dell’educazione alla quale lo stesso filosofo ha ispirato la sua vita. Platone tuttavia, secondo Berti, sembra delineare non la formazione di un particolare tipo di uomo, esperto di un’arte specifica (una sorta di tecnico, come diremmo oggi), ma piuttosto quella dell’uomo universale, a cui non basta sapere molte cose, ma che attraverso la sua conoscenza sia capace di compiere il bene in un costante processo educativo e autoeducativo. Emblematica allora la massima Non multa sed multum, per cui non è conoscere molte cose a soddisfare l’anima, ma il buon sapere “sentito” interiormente. L’educazione per Platone non è soltanto istruzione ma formazione dell’uomo che tenga conto di un potenziale umano irriducibile di fronte a qualsiasi forma ideologica e non surrogabile dalle più avanzate tecnologie, come sostiene Edda Ducci.

“Non multa sed multum”




“Non multa sed multum”
Percorso sull’educazione nei testi platonici alla ricerca dell’idea del bene

La tematica educativa viene affrontata da Platone direttamente o indirettamente in quasi tutti i suoi dialoghi non soltanto nella Repubblica, dove emerge di più l’idea di predestinazione sociale e dove l’istituzione famiglia non trova uno spazio ampio. Enrico Berti ricorda che due grandi filologi tedeschi, Werner Jaeger e Julius Stenzel, hanno mostrato come tutta la filosofia di Platone possa essere considerata una teoria dell’educazione alla quale lo stesso filosofo ha ispirato la sua vita.
Platone tuttavia, secondo Berti, sembra delineare non la formazione di un particolare tipo di uomo, esperto di un’arte specifica (una sorta di tecnico, come diremmo oggi), ma piuttosto quella dell’uomo universale, a cui non basta sapere molte cose, ma che attraverso la sua conoscenza sia capace di compiere il bene in un costante processo educativo e autoeducativo.
Emblematica allora la massima Non multa sed multum, per cui non è conoscere molte cose a soddisfare l’anima, ma il buon sapere “sentito” interiormente. L’educazione per Platone non è soltanto istruzione ma formazione dell’uomo che tenga conto di un potenziale umano irriducibile di fronte a qualsiasi forma ideologica e non surrogabile dalle più avanzate tecnologie, come sostiene Edda Ducci.
Interessante vedere che la ricerca del vero, nei dialoghi di Platone, appare spesso come contemporaneamente teoretica e pragmatica. Questa ricerca, infatti, non sembra quasi mai fine a se stessa, un mero metodo di ricerca, ma è proiettata anche verso un modo di procedere per migliorare se stessi e più in generale la città.
Platone crede nella capacità dell’uomo di superarsi, di “elevarsi” e pare abbia a cuore soprattutto il desiderio di farlo crescere nella sapienza per il suo bene e della polis. Egli sa che comprendere e far valere solo il quantificabile impoverisce la vita, e nei suoi dialoghi spesso oltre al “che cosa”, offre anche il “come”.
Nelle prime pagine dell’Apologia, il protagonista Socrate domanda al sofista Callia: «Chi è che ha conoscenza […] della virtù dell’uomo e del cittadino?». Per semplificare (senza snaturare il significato della domanda all’interno del contesto originale) potremo dire che Socrate chiede: “Chi conosce cosa rende migliore l’uomo e il cittadino?”. Il dubbio di Socrate sembra essere indirizzato in modo “ironico” verso quei sapienti che hanno la pretesa di sapere tutto.
È facile scorgere fra le righe dei dialoghi platonici – che hanno spesso come protagonista Socrate suo maestro – una sorta di realismo nei confronti dell’uomo. Egli sembra non crederlo capace di conoscere pienamente tutto e capace di discernere sempre fra il bene e il male.
Per Platone il filosofo-educatore può e, per certi aspetti, deve aiutare ad aprire la mente svolgendo così la missione che Dante attribuisce al suo Maestro: «m’insegnavate come l’uom s’etterna». La visione platonica dell’uomo ispira da sempre, con persistenza o mutamenti, posizioni prevalentemente attente al soggetto in contrapposizione con quelle che tentano di vanificarlo «per la prevalenza e l’invadenza dell’oggettivo», afferma la Ducci.
«Non vitae sed scholae discimus» diceva con disillusa amarezza Seneca al suo amico Lucilio, riferendosi al frivolo accademismo delle scuole. «Non impariamo per la vita, ma per la scuola […] noi ci dilettiamo nelle oziose sottigliezze, cose che possono renderci uomini dotti, ma non uomini buoni». Se invertiamo i termini: «Non scholae, sed vitae discimus», allora la massima acquista un valore positivo che ben si addice al senso primitivo dell’insegnare di Socrate e del suo «vivere filosofando sottoponendo ad esame se stesso e gli altri».
Nell’Apologia, così come nel Fedro, nella Repubblica e nella Lettera VII, si evidenzia una spaccatura fra una “sapienza umana” (anthrophine sophia) e un sapere che sembra essere utile alla crescita, ma senza che questo arricchisca e elevi l’uomo al vivere virtuosamente.
Per non entrare nel merito delle molteplici riflessioni possibili, accenniamo solo che nella Repubblica, per Platone, l’educazione dell’intelligenza è una conversione all’“idea del bene” e il filosofo deve tornare nella “caverna” per aiutare gli altri a liberarsi. Egli, come insegnano i padri della filosofia, sembra non essere incline verso una ricerca solipsistica della sapienza, ma mira all’indagine sulla realtà nel confronto con gli altri.
In un certo senso è anche educatore con il compito (oltre quello di “ndagare” la realtà) di favorire il cammino degli altri verso un riconoscimento sempre maggiore e più chiaro dei propri desideri e indicare orientamenti che mirino al raggiungimento di una sempre più vera e intelligente conoscenza del mondo in cui viviamo.
Educare non significa solo trasmettere una molteplicità di saperi slegati tra loro in forma nozionistica, ma aiutare a crescere nella sapienza e nella ricerca di un senso. La spontaneità, l’apertura e l’audacia dei dialoghi di Platone mostrano proprio questo; un modo di “trasmettere conoscenza” che non è per nulla come per i vasi comunicanti «qualcosa che scorra dal pieno al vuoto», ma secondo l’arte maieutica, qualcosa che l’uomo trae fuori da se stesso (Paul Friedländer).
Per questo se si conserva una fede sicura e intimamente provata nell’umano originario e originale, restando fondamentalmente certi di uno spazio umano non convertibile in quantità e non surrogabile dalle soluzioni tecnologiche, sostiene la Ducci, il problema dell’educabilità dell’uomo acquista «un fascino e una rischiosità inusitate». E, nello stesso tempo, ci si ritrova nel pieno di una “lotta” che da tempo si combatte nel mondo occidentale per il senso dell’uomo.

Francesco Recanati

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