Nilla Pizzi




“Dio del ciel se fossi una colomba vorrei volar laggiù dov’è il mio amor, che inginocchiato a San Giusto prega con l’animo mesto”.

Anche se la canzone che maggiormente rappresentò Trieste nell’immaginario collettivo è stata “Le campane di San Giusto”, meglio conosciuta come “Le ragazze di Trieste”, composta nel 1915, “Vola colomba” (da cui è tratta la frase iniziale in corsivo) è stata, anche attraverso la vittoria al Festival di Sanremo del 1952, la bandiera del ritorno e dell’amore di Trieste all’Italia.

Composta dal maestro Carlo Concina (1900-1968) e da Bixio Cherubini (1899-1987), già autore quest’ultimo di classici della canzone italiana come “Violino tzigano”, “Mamma”, “Tango delle capinere”, ha avuto nell’interpretazione calda e suadente di Nilla Pizzi (1919-2011) la consacrazione definitiva: «Fummo felici e uniti e ci han divisi; ci sorrideva il sole, il cielo, il mar. Noi lasciavamo il cantiere lieti del nostro lavoro e il campanon (di San Giusto) din don ci faceva il coro. Vola, colomba bianca vola, diglielo tu che tornerò…».

L’anno precedente, il 1951, la stessa cantante della provincia bolognese aveva trionfato a Sanremo con “Grazie dei fiori”: «Grazie dei fior e addio per sempre addio, senza rancor». Con il trionfo di “Vola colomba” Adionilla Pizzi (questo il suo vero nome all’anagrafe) portò quella musica dolce e mesta e quei versi esplicitamente riferiti alla città giuliana all’attenzione da parte di tutta l’Italia.

Cantando si impara a misurare il successo sulla fedeltà e sul sincero amore di una città e di un popolo: «Dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò». Son versi toccanti, meno retorici e trionfanti del canto delle ardite ragazze di Trieste: «O Italia del mio cuore tu ci vieni a liberar» ma dense di commozione e di purificata preghiera nell’attesa dell’incontro salvifico: «Tutte le sere m’addormento triste e nei miei sogni piango e invoco te; anche el mi vecio te sogna, pensa alle pene sofferte…».

Nello stesso 1952 Nilla Pizzi vinceva anche il secondo posto a Sanremo con l’allegoria e satira politica, davvero irriverente a quei tempi, di “Papaveri e papere”: «Lo sai che i papaveri son alti e tu sei piccolina, sei nata paperina, che cosa ci vuoi far». Quell’allusione esplicita ai papaveri (rossi) così alti, ridondanti fra le spighe dorate, esprimeva la possente metafora del Partito Comunista che, seppur sconfitto nelle elezioni libere del 18 aprile 1948, poteva con il simbolo esplicito della falce tagliare la ricchezza e la libertà di una Nazione appena uscita dalla guerra.

Nella canzone, all’opposto degli svettanti papaveri rossi, c’erano le piccole ingenue e ignare paperine che non si lasciavano impaperare (gabbare) dalle lusinghe mondane e ideologiche: «E un giorno di maggio che dirvi non so, avvenne poi quello che ognuno pensò (…) venne la falce che il grano tagliò e un colpo di vento i papaveri in alto portò…». Proprio quest’immagine e questa canzone furono usate dai Comitati Civici e dalla Democrazia Cristiana nella campagna elettorale del 1952. Sono solo canzonette? Cantando si impara anche questo.

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