Mitteleuropa e questione demografica: luci e ombre




Comunque la si pensi politicamente, restiamo convinti di una cosa: cioè che la crisi attuale dell’Europa sia soprattutto una crisi demografica, prodotta da una cultura indigena che non considera più i figli come un bene su cui investire per il futuro e vede il ‘carpe diem’ come il valore massimo a cui si possa aspirare su questa terra. D’altra parte lo dimostrano i numeri, che hanno il merito se non altro di essere sempre imparziali, come si suol dire: gli ultimi rilevamenti ci indicano che il nostro Continente oggi vanta (si fa per dire) il primato mondiale della denatalità, peggio di noi fa solamente il Giappone, una società non certo impregnata, né oggi né ieri, di radici cristiane. Dopo il Giappone il primo Stato europeo, nello specifico, è quella stessa Germania che per altri versi dovrebbe essere invece la guida del Continente. Una mamma senza figli, però. Proprio una strana mamma. Tutti parlano di decrescita economica e finanziaria ma relativamente pochi affrontano direttamente il problema evidente che c’è dietro ogni decrescita, il fatto che – anzitutto biologicamente – la società appunto non cresce più. Ed è da anni e anni che la tendenza va avanti, non certo dallo scoppio dell’ultima crisi internazionale generata dal sistema finanziario. Resiste, anche qui, quasi solo la parte orientale del Continente, per esempio l’Ungheria che da qualche tempo sta investendo seriamente in politiche strutturali incentrate sul rilancio politico e sociale della famiglia. Come? Direte voi. Per esempio stanziando trentamila euro da dare ad ogni famiglia alla nascita del terzo figlio, e altri trentamila – in prestito – per accompagnarne i primi anni di cura ed educazione nelle famiglie numerose laddove i genitori lavorino entrambi. O per esempio moltiplicando i servizi pubblici per l’infanzia, a partire dagli asili-nido, anche nelle realtà provinciali e non solo metropolitane. Non sorprende allora che, a fronte di questi provvedimenti di buon senso, dal 2013 ad oggi gli uffici statistici nazionali abbiano registrato un aumento dei matrimoni del 10% circa (notevole, visto il brevissimo lasso di tempo) e una diminuzione ancora più rilevante del numero dei divorzi nel Paese (circa il doppio), cosa che – insieme ad altre misure di riforma interne più tecniche e istituzionali – ha permesso all’economia nazionale di ripartire. Il punto è che il problema è anzitutto di tipo culturale e sociale e ha a che fare con variabili non sempre monetizzabili immediatamente come la mentalità popolare, la visione della coppia e dell’amore, la speranza che il domani sarà meglio di oggi e la voglia di mettersi in gioco. Tuttavia, non per questo la politica parlamentare dovrebbe lavarsene le mani: invece, a ben guardare, è proprio quello che è successo in Occidente. Ipotizzare discorsi d’incremento demografico dall’alto fa gridare allo Stato dirigista d’altri tempi – quando va bene – e siccome oggi anche il politico, ogni politico, vuol essere un liberale, nel senso di apparire come uno che garantisce la libertà di tutti e di ciascuno il tema demografico è diventato un campo minato. Infatti, se ci fate caso, ne parla ormai solo la Chiesa, che è una delle poche istituzioni globali che non deve rispondere a un corpo elettorale e quindi è libera dai condizionamenti della creazione e della conservazione del consenso in quanto tale nelle società democratiche. Però non è che ci consoli poi molto alla fine dei conti perché il problema esiste lo stesso e la logica dice che se non verrà affrontato adeguatamente condizionerà molte delle scelte generazionali da qui al futuro prossimo. Il politico solitamente non ci pensa perché è interessato a garantirsi la (sua) sopravvivenza nel breve-termine rimandando le urgenze più serie e problematiche a chi verrà dopo di lui, chissà quando. Però, proprio perché non siamo demagogici, va pure detto che non sempre e non tutti i politici sono così. Qualcuno, ogni tanto, fa eccezione, e quando fa eccezione va segnalato, non sulla base delle simpatie ideologiche ma sulla base dei fatti perché ‘contra factum non valet argomentum’diceva San Tommaso d’Aquino che certo non aveva in mente né la Merkel né Orban quando lo scrisse ma insomma ci siamo capiti. Se qualcuno poi vuole confutare il discorso – insegnava sempre la buona retorica medievale – presenti altri fatti, uguali e contrari, a sostegno delle sue proposizioni e li esponga di rimando nell’ordine confutando quelli di prima. D’accordo che non va molto di moda ultimamente, ma un uomo che si occupa della polis, ovunque esso sieda, universalmente, non solo cattolicamente parlando, andrebbe valutato con questo metro di giudizio. Sul perché, poi, oggi questo non accada invece praticamente mai sulle nostre acclamatissime tribune massmediatiche ne parleremo un’altra volta.

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