Matrimonio gay. Così la Cirinnà stravolgerà tutto




Una disamina del disegno di legge Cirinnà, impone immediatamente, risalendo al vertice del sistema normativo italiano, la considerazione che l’art. 29 della Costituzione esprime un’opzione inequivocabile per la famiglia fondata sul matrimonio, nel solco peraltro di una tradizione giuridica pre-cristiana, e più precisamente pagana, nient’affatto omofoba. Il matrimonio, etimologicamente il dono della madre, crea, infatti, la famiglia, l’istituto su cui, in un certo qual senso, si fonda la stessa società: il seminarium Rei publicae, il semenzaio della Repubblica, secondo la felice espressione di Cicerone. Il consorzio umano non può infatti affrancarsi – al di là di ricostruzioni che corrispondono a desideri, ad aspirazioni, ma non alla realtà delle cose – dall’istituto della famiglia: anzitutto dalla famiglia in senso stretto. E la famiglia è intrinsecamente fondata su un modello sessuale (uomo/donna) ineludibile.

Come è stato giustamente osservato, il matrimonio, inteso come rapporto tendenzialmente stabile, basato su un modello sessuale tradizionale, in cui i genitori si assumono ben precise responsabilità, crea quel nucleo di base che la stessa Costituzione definisce “società naturale” e che nella sistematica costituzionale rappresenta il primo articolo del Titolo II della Parte I, rubricato “Rapporti etico-sociali”. La famiglia è cioè individuata dall’ordinamento come pietra angolare, appunto, dei rapporti etico-sociali. La rilevanza ordinamentale che deve essere riconosciuta ad un’unione tendenzialmente prolifica, non ammette dunque surrogati che sotto falsa denominazione spostino l’asse dei rapporti etico-sociali da un istituto tendenzialmente – al di là cioè del caso concreto, che non necessariamente corrisponde al modello ideale – produttivo di nuove forze, di storia, di futuro, ad un modello di unione che nasce costituzionalmente ed inderogabilmente sterile. I modelli sessuali alternativi esulano cioè completamente, e non a caso, dall’orizzonte della Costituzione. Il profilo etico, poi, non va comunque disgiunto, nella natura delle cose, dalla concretezza dei fatti e dalle stesse implicazioni che l’istituto familiare ha sull’economia di un Paese.

Il fondamento dei rapporti etico-sociali – la famiglia – rappresenta, in ultima analisi, anche la ricchezza materiale di un Paese. Gli stessi benefici economici, variamente denominati, che lo Stato elargisce alla famiglia, costituiscono in effetti il riconoscimento di questa funzione sociale dell’istituto. Paradossalmente, ma realmente, se non vi fosse la famiglia, e con essa un bilancio positivo per il futuro (non vi sarebbe Res publica senza seminarium Rei publicae) nessun beneficio, a nessun soggetto, a nessuna istituzione e di nessun genere sarebbe concepibile.  La scelta degli artt. 29 e ss. della Costituzione è dunque, nelle sue esplicite ed implicite innervature con il sistema vigente, una scelta meditata. Non si può pertanto creare un sistema alternativo di rapporti sostanzialmente equiparati al modello familiare, ma radicalmente diversi quanto a natura, senza stravolgere da un lato la realtà delle cose; e dall’altro senza devastare l’assiologia costituzionale, equiparando la società naturale senza cui non esisterebbe lo Stato, a fattispecie non convenzionali di società che a questo modello non corrispondono affatto. Anzi, a fattispecie che pretendendo di essere giuridicamente analoghe – quando non sostanzialmente identiche – alla famiglia, per ciò stesso usurpano il ruolo ed i diritti dell’istituto familiare.

L’escamotage di parlare di “unioni civili” (anziché di matrimoni omosessuali) di cui tutto il ddl Cirinnà è intriso, appare – senza alcuna intenzione di offendere, ma nella mera prospettiva di descrivere la realtà dei fatti per come essi appaiono – un espediente nominalistico, intellettualmente disonesto, per fondare ex novo un istituto larghissimamente modellato sul matrimonio, ma non definito come tale per evidenti ragioni giuridiche e politiche. Unione civile è anche, infatti, un possibile sinonimo di matrimonio civile fra uomo e donna. Il ddl Cirinnà, a riprova di quanto or ora asserito, al di là delle parole detta una disciplina che comprova come le unioni civili altro non siano che un’autentica parodia del matrimonio civile. Lo sono nella celebrazione dell’unione pseudo-familiare, che, come il matrimonio, viene effettuata dinanzi all’ufficiale di stato civile, con la presenza di due testimoni (art. 1, c. 1 ddl). Lo sono nell’individuazione delle cause impeditive dell’unione, per cui – esemplificando – l’esistenza di un precedente vincolo matrimoniale o di una precedente unione civile, impedisce la costituzione dell’unione civile, allo stesso modo che l’esistenza di un precedente vincolo matrimoniale impedisce l’instaurazione di un nuovo matrimonio (bigamia) (art. 1, c. 3, lett. a), dd).

Il che dimostra, senza peculiari sforzi, che l’unione civile omosessuale, per Cirinnà e colleghi, è, dal punto di vista giuridico, un matrimonio e cioè crea fra i “coniugi” esattamente gli stessi vincoli di un matrimonio. Lo sono, e cioè le unioni civili sono una parodia del matrimonio, per il continuo, pedissequo richiamo che il ddl Cirinnà, senza neppure uno sforzo di elaborazione, fa alle singole norme con cui il codice civile regola l’istituto del matrimonio. Lo sono perché si prevede il cognome unitario dell’unione, in analogia con quello della famiglia (art. 1, c. 6 ddl). Lo sono, perché i diritti ed i doveri della coppia omosessuale, come esplicitati dagli artt. 143 e ss. del codice civile per il matrimonio, sono mutuati piattamente e richiamati in maniera esplicita uno ad uno ed elevati a diritti e doveri delle unioni civili (art. 3, c. 1 ddl). Il termine “coniugi” diventa cioè, in senso sostanziale – anche se non formale – il sinonimo giuridico di “coppia omosessuale”. Cambiano i nomi, non muta affatto la sostanza: una legge truffa, insomma.

Proseguendo: l’unione civile è la parodia del matrimonio dal punto di vista dei diritti successori (art. 4 ddl). Per lo scioglimento dell’unione civile, poi, si richiama la disciplina sul divorzio (art. 6 ddl). Un plagio può essere più o meno raffinato. Nel ddl Cirinnà, il plagio del matrimonio presenta una vastità impressionante: senza raffinatezze di sorta. Obiettività vuole dunque che si ammetta che i proponenti si sono limitati a fingere un’ossequiosa adesione al dettato costituzionale, impiegando la denominazione “unioni civili” per non entrare troppo apertamente in rotta di collisione con l’istituto matrimoniale. Ed è appunto a proposito del matrimonio, che diviene necessario interrogarsi su un profilo di grande rilievo: quello dell’eventuale rapporto fra genitori dello stesso sesso (e dunque tra falsi genitori: almeno uno dei due) e “relativi” figli. In via preliminare, è anzitutto opportuno prescindere da ciò che la proposta Cirinnà prevede concretamente in materia di “genitorialità” omosessuale. É necessaria, infatti, una consapevolezza di fondo: una volta ammesso il principio eversivo, sopra brevemente descritto, per cui le unioni omosessuali sono sostanzialmente equiparate alla famiglia, la concessione di figli innaturali a queste coppie è già implicitamente contenuto nella disciplina sopra brevemente illustrata.

Il perché è semplice. Accogliendo, sotto mentite spoglie, l’istituto del “matrimonio” (ma anche solo del paramatrimonio) omosessuale, si apre nell’ordinamento una falla di immani proporzioni. A questo punto è solo di una questione di tempo: l’attribuzione di figli all’unione omosessuale rappresenta infatti la naturale declinazione dell’innaturale principio per cui il rapporto omosessuale si chiama unione, ma è invero un “matrimonio” omosessuale, o quantomeno una realtà negoziale/contrattuale ad esso affine. In ogni caso, i proponenti non hanno voluto lasciare dubbi sulle loro intenzioni ed hanno preteso che l’unione “matrimoniale” omosessuale, in quanto tale, abbia il diritto alla “propria” prole. Hanno così espressamente previsto che il figlio di uno dei membri della coppia omosessuale, possa, in un caso particolare, essere adottato dall’altro membro della coppia (art. 5 ddl). Si tratta, nella fattispecie, di un’adozione con cui si crea un legame adottivo particolare con la coppia omosessuale, senza che però i vincoli con la famiglia di origine possano essere sciolti. All’unione omosessuale si applica in tal caso l’art. 147 c.c., relativo ai doveri dei genitori nei riguardi dei figli (art. 3, c. 1 ddl).E così, gli inconfessabili “coniugi” omosessuali diventano anche inconfessabili (ma indubbi) “genitori” giuridici del malcapitato minore. Con una differenza, però, rispetto alla varie forme di vera adozione: l’adozione, come dicevano i giuristi romani, imita la natura (adoptio naturam imitatur). In un contesto come quello del ddl Cirinnà, non si imita la natura: se ne fa piuttosto, lo si deve ribadire, un’impressionante parodia.

Date queste inquietanti premesse, alcuni commentatori, nel solco travisante del ddl Cirinnà e dello stesso stato alterato di coscienza ad esso sotteso, hanno preteso di difendere questa proposta legislativa con un richiamo alla giurisprudenza costituzionale. A loro giudizio la Consulta, nella sentenza n. 138 del 2010, avrebbe aperto alle unioni civili, con l’ammettere che la Costituzione non cristallizza i rapporti sociali con riferimento agli anni ‘40, e dunque non vieta le unioni civili. Al contrario, si obietta che quella sentenza costituisce una delle principali ragioni per cui nella redazione del ddl Cirinnà le unioni civili hanno assunto una denominazione fasulla: unioni, anziché matrimoni. Come hanno ricordato i giudici costituzionali, l’unione omosessuale non può costituire vincolo matrimoniale, perché in tal modo agendo si inciderebbe sul «nucleo della norma, (costituzionale, n.d.r.) modificandola».

La Carta costituzionale è, infatti, chiara, ha ricordato la Corte, e la sua opzione per il rapporto matrimoniale uomo/donna è indiscutibile: «Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto». La giurisprudenza – di qualunque corte – potrà dunque, in futuro, travisare questi concetti, ovviamente simulando un ossequio ipocritamente formale alla Carta costituzionale, ma è chiaro che se ciò dovesse avvenire si tratterebbe invero di pronunce creative.

O forse, meglio, distruttive del sistema vigente. Si deve aggiungere, fatte queste premesse,  che da recentissime notizie di stampa sembra che la Cirinnà intenda rivedere, almeno in parte, il disegno. Si comprenderà meglio nei prossimi giorni in cosa consisteranno queste modifiche: certo è che restando in vita – e non si vede come possa venir meno – il principio per cui le coppie omosessuali debbono ottenere un riconoscimento giuridico di speciale favore in quanto tali, e cioè in quanto istituto quantomeno analogo al matrimonio, non muterà la sostanza del problema: dal principio germinerà infatti la conseguenza, come dal bruco si sviluppa la farfalla.

Individuati dunque i termini generali della mistificazione in atto, appare più agevole proporre alcune brevi considerazioni relative ai costi economici e sociali dell’istituto del matrimonio omosessuale. Va premesso che oggi sono in atto – il che è a tutti noto – gravi criticità, anche proprio in termini di oneri sociali, nella gestione dei rapporti familiari tradizionali.  Ci troviamo infatti di fronte ad un sistema familiare che (per una serie di ragioni su cui non serve qui indugiare) appare in grave crisi. In ogni senso. Ora, estendere l’istituto del matrimonio – sia pur denominandolo unione civile – al campo dei rapporti omosessuali, moltiplica problemi e costi economici. Non è possibile addentrarsi nelle ramificazioni di un rapporto familiare ed in tutto ciò che ne consegue sul piano dei costi. D’altronde che la famiglia abbia dei costi è a tutti noto. Vero è, di contro, che la famiglia costa, ma è del pari indubbio che essa produce storia umana, come si diceva e come in buona sostanza ammette anche un omosessuale onesto quale ad esempio ha dimostrato di essere il noto stilista Dolce. E pertanto produce ciò che, altrimenti, neppure esisterebbe, laddove questa “produzione” va scontatamente intesa non solo in un’arida prospettiva contabile, ma anche nell’accezione più alta e nobile del termine.

Venendo al dunque, per una parzialissima, ma utile verifica delle criticità economiche che il matrimonio omosessuale contemplato dal ddl Cirinnà comporterebbe, si propone un caso di rilievo economico paradigmatico, in quanto ben noto alla previdenza italiana e, teoricamente, allo stesso Parlamento oggi chiamato ad approvare le cosiddette unioni civili. Tutti conoscono il fenomeno dei matrimoni celebrati fra badanti ad assistiti in età avanzata, matrimoni finalizzati a lucrare le pensioni di reversibilità dei presumibili, prossimi morituri. Al fine di impedire abusi di siffatta natura, è stata adottata una normativa specifica, che fra l’altro è a rischio di declaratoria di illegittimità costituzionale (art. 18, c. 5, L. n. 111/2011).  In un rapporto fra badante e assistito, comunque, perché la macchinazione matrimoniale abbia un effetto è quantomeno necessaria la delicata fase della circuizione del morituro. Certo è, in ogni caso, che i costi previdenziali crescono qui in maniera preoccupante e che di conseguenza il legislatore ha per l’appunto cercato di correre ai ripari: il rischio sociale che si corre è infatti quello di pagare per decenni la pensione di reversibilità al giovane coniuge-parassita.

Si prefiguri, alla  luce di queste premesse, quale possa essere la proiezione economica della pensione di reversibilità, ove la stessa venga impiegata in chiave strumentale nel caso di “matrimoni” omosessuali celebrati in extremis, allo specifico scopo di beneficare un amico/a omosessuale con la propria pensione. Di più, è importante rendersi conto che se la pensione di reversibilità è forse il fronte economico su cui è più agevole puntare il fuoco dell’attenzione, la posta in gioco è invero molto più elevata. Infatti, il ddl Cirinnà esplicita un principio generale devastante: il concetto di membro dell’unione civile, costituisce, salvo eccezioni ben precise, sinonimo giuridico della nozione di coniuge, di marito e di moglie (art. 3, c. 3, ddl). Questo criterio, dunque, che equipara ai più disparati fini giuridici ed economici i coniugi veri e i “coniugi” omosessuali, si riferisce ad un numero a priori indefinito di leggi e regolamenti relativi ai rapporti coniugali e schiude pertanto orizzonti immensi al sorgere di oneri che non è affatto facile preventivare.

A ciò si aggiunga che l’unione omosessuale pone anche un quesito di principio, a monte, e cioè a prescindere da un’ipotetica analisi dettagliata dei costi. É ragionevole che da un lato si sottraggano risorse a ogni settore della spesa pubblica e delle forme di assistenza e previdenza sociale più meritevoli, compreso il sempre più penalizzato settore pensionistico; e che, dall’altro, si aprano, tanto nel settore pensionistico, quanto in altri settore del bilancio, nuove voci di spesa a favore delle unioni omosessuali, in simmetria con quelle previste per la famiglia, come se questa fosse pari a quelle? Si noti: in questa prospettiva critica, all’omossessuale non si negano né i benefici che l’ordinamento gli ha riconosciuto come figlio di un rapporto necessariamente tradizionale fra uomo e donna, né quelli che la civitas gli riconosce come uomo, come lavoratore, come come invalido, come parte contraente di un qualsiasi contratto, ecc.. Gli si nega solo uno status di favore sotto il profilo “matrimoniale” o paramatrimoniale. In definitiva, considerato che, come si diceva, la famiglia resta imprescindibile perché è l’unico istituto che possa dare un futuro alla collettività, è giusto, anche eticamente, che una parodia della famiglia finisca per gravare, in quanto istituzione, sulla vera famiglia?

La proposta Cirinnà, sul piano giuridico, politico, valoriale, trova il proprio principale aggancio implicito nel principio unionista della non-discriminazione per ragioni di orientamento sessuale. È peraltro evidente che la nozione di non-discriminazione non è declinabile, nella legislazione italiana, scardinando la Costituzione, cui non a caso si appellano, con toni rassicuranti, persino i fautori delle unioni omosessuali. Non può essere sancito, e men che meno applicato senza intelligenza (e cioè indiscriminatamente), un criterio che negando la possibilità di cogliere il discrimen fra unioni omosessuali e matrimonio demolisce le fondamenta di carattere etico-sociale e dunque giuridico dell’ordinamento (v. ancora una volta artt. 29 e ss. Cost). Il discrimen fra le due diverse fattispecie è scontato e le considerazioni che precedono, senza pretesa alcuna di completezza,  valgono a comprovarlo.  Accogliendo il principio opposto, la famiglia tri o plurilaterale, e cioè con tre e più coniugi contestuali, ed ogni altra ipotesi di orientamento sessuale, acquisirebbero progressivamente diritti nell’ordinamento. Questa affermazione potrebbe parere eccessiva, ma in effetti non lo è.

Benché, infatti, taluni orientamenti sessuali ritenuti gravemente devianti ed offensivi di beni giuridici tutelati dall’ordinamento costituiscano attualmente reato (la pedofilia, ad es.), e dunque vengano sanzionati, il punto nodale non è quello della sanzione (contingente e superabile), o quello della tendenza, attuale, a riprovare date condotte sessuali. Il punto nodale è piuttosto quello della linea di principio. Ciò che dunque si deve tenere ben presente, è che le unioni omosessuali debbono restare nel campo del diritto comune: non debbono cioè poter vantare un corpo di norme speciali a loro favore.  Se infatti pretendono per sé uno status di favore, analogo rispetto alla famiglia (persino in una versione giuridica molto meno sfacciata del ddl Cirinnà), una volta aperta la porta a questo principio eversivo, si scenderà ogni scalino: sino in fondo. Quando Cristo e Barabba vengono posti, dal pavido Pilato, sul piano dell’analogia, la conclusione da cui Pilato stesso crede di potersi facilmente affrancare lavandosene le mani, è a tutti nota.

Se dunque in forza del principio di non-discriminazione si riconosce anche solo una remota somiglianza fra matrimonio e unione omosessuale, allo stesso modo, nel rispetto dell’orientamento bisessuale (peraltro difeso a spada tratta all’interno dello schieramento pro Cirinnà), diverrà appunto doveroso aprire progressivamente alle unioni con più di due partner, i quali con il tempo diverranno “coniugi”, ecc.. Ora, che lungo questa china “libertaria” si possa andare molto lontani, non è solo un’ipotesi futuribile: in Europa è già, in nuce, una realtà. Con delibera del 25 settembre 2014, il Deutscher Ethikrhat, autorevolissimo Consiglio nazionale tedesco per l’etica, i cui indirizzi, benché non vincolanti, sono tenuti in notevole conto dal mondo politico e giuridico tedesco, ha auspicato, in nome della libertà, la depenalizzazione del reato di incesto, che è stato definito un semplice “tabù sociale”. La Corte costituzionale tedesca ha immediatamente applicato il principio in una fattispecie concreta, sospendendo la pena nel caso dei fratelli Stuebing, amanti incestuosi e genitori di ben quattro figli. Questa ulteriore evoluzione, nichilistica nei suoi esiti (per incidens: la distruzione è, per tradizione germanica, l’esito ampiamente prevedibile di una potente fase “costruttiva”), non va affatto trascurata.

Quando (plausibilmente a breve) in Germania i rapporti incestuosi rientreranno nell’orizzonte comune del tedesco medio, sarà ragionevole pretendere che i sottoposti meridionali si adattino alle regole della notoriamente più civile ed avanzata società teutonica. Tanto più che l’incesto non sarebbe un orientamento sessuale meramente tedesco, ma uno degli innumerevoli, possibili orientamenti sessuali che l’Ue ha inserito senza alcun distinguo (indiscriminatamente) fra i valori da tutelare.  É’ intellettualmente e moralmente doveroso, a questo punto, rendersi conto che se non si pone con nettezza un argine a questa deriva, si apre la strada che conduce all’incesto – accogliendo anzitutto la proposta del modello tedesco – e ad ogni ulteriore “libertà”. Dovremo ammettere, cioè, che i rapporti sessuali tra fratelli, fra genitori e figli, fra nonni e nipoti, ecc., costituiscono una scelta buona e giusta, nonché istituzionalizzabile. E via discorrendo, nella direzione di ogni, possibile istituzionalizzazione.

Riprendendo dunque le fila delle considerazioni già fatte in ordine all’unione omosessuale intesa come istituto giuridico, non è irrilevante concludere con un richiamo alla storia di questo Paese. Nonostante la società odierna, a ogni livello, sia propensa al ripudio sostanziale del cristianesimo – pur ritenendosi e definendosi in larga misura cristiana – la nozione di mos maiorum, di costume degli avi, quantomeno pagano, può essere utile a suggerire una meditazione sincera e non ideologica sulle unioni omosessuali. È dunque doveroso tener presente che il diritto romano non ha mai contemplato né il matrimonio omosessuale, né comunque norme peculiari, e cioè un corpus giuridico, per regolare le unioni omosessuali.  Le fonti giuridiche non danno alcun valore a questi matrimoni; quelle storiche e letterarie riferiscono i fatti, per giunta riportando, fra l’altro, commenti sarcastici che suggeriscono spunti per comprendere di quale considerazione godessero queste opzioni alternative a Roma. Ebbene, il mondo pagano aveva piena contezza di cosa fosse l’omosessualità maschile, ed in una misura apprezzabile la praticò con una certa disinvoltura, ma ciononostante non istituì mai neppure – si badi – una figura che fosse anche solo analoga al matrimonio omosessuale.

Si soggiunge che – nel contesto di mistificazioni in cui si muove l’ideologia delle unioni civili – è opportuno rammentare come questo rappresenti un dato storico-giuridico alla portata di chiunque. Costituisce infatti verifica effettuabile anche dal profano di questioni giuridiche, quella attuabile consultando quotatissimi manuali di diritto romano su cui si sono formate generazioni di giuristi, allievi a loro volta di storici-giuristi, molto meno propensi alla fantasia ed alle suggestioni ideologiche di quanto non lo siano alcuni commentatori odierni. Ovviamente questi commentatori ideologizzati si guardano bene dal citare correttamente le fonti giuridiche e la loro inequivocabile chiarezza sul punto.

Preferiscono equivocare fatti eccezionali (e notori) che non sono mai assurti a dignità di diritti, utilizzando le eccezioni storiche come argomento per insinuare il dubbio.  L’eccezione, in quest’ottica, anziché confermare la regola la metterebbe in discussione. Al contrario, il giurista romano, il suo rigore logico e definitorio, la mentalità romana stessa, non accettarono né mai avrebbero potuto accettare che il matrimonio (dono della madre), «unione di uomo e donna e consorzio di tutta la vita» (Modestino), fondamento della famiglia, che è «principio della città» (Cicerone), rapporto che è contratto al fine di dare prole e continuità al consorzio umano («liberorum quaerendorum causa»), come attestano varie fonti giuridiche, potesse assumere un significato linguistico e giuridico contraddittorio, grottesco e caricaturale.

A Roma l’omosessuale aveva dunque uno status giuridico, individuale e sociale, in quanto essere umano e cioè a prescindere in toto dall’omosessualità in sé se per sé considerata. In quel contesto pagano, vi era dunque la consapevolezza che la messa in scena dei matrimoni omosessuali non sfiorava neppure il mondo del vero diritto e cioè dell’architettura di regole che ordina (ordinamento) i rapporti sociali.  Questa è dunque la linea etico-giuridica di un ordinamento tutt’altro che omofobo. Siamo certi, concludendo, che con l’istituzione delle unioni civili omosessuali – secondo il modello del ddl Cirinnà o comunque anche secondo un modello più raffinato ad acuto – non si scardini in maniera definitiva il fondamento dei rapporti etico-sociali, e cioè la famiglia, come riconosce anche la Costituzione vigente? Che non si vada troppo oltre nel rinnegamento dei valori che, nel mondo pagano ed in quello cristiano, hanno costituito l’asse portante della civiltà italica? Che non sia un terribile azzardo, gravido di incalcolabili conseguenze, rigettare il peso di quasi 2800 anni di storia?

di Silvio Pecorella

Fonte: http://www.lanuovabq.it

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