Storia di Margherita, l’infermiera che ha perso il posto di lavoro per essere stata coerente con la sua professione e con se stessa
di Alfredo Mantovano
Voghera, una sera di inizio ottobre. Due fidanzati si presentano allo sportello del pronto soccorso. Incontrano Margherita, 31 anni, da quattro anni infermiera di ruolo, vincitrice di concorso. Le chiedono come fare per avere il Norlevo, la “pillola del giorno dopo”. E’ un prodotto comunemente qualificato “contraccettivo post-coitale”, se ne raccomanda l’assunzione entro 72 ore dal rapporto “non protetto” e – così è scritto nella descrizione data – ha la funzione, fra l’altro, «di impedire e rendere più difficoltoso l’annidamento dell’embrione». Se è avvenuta la fecondazione dell’ovulo e si sta formando l’embrione, impedirne l’annidamento significa abortire; dunque, può definirsi un prodotto eventualmente abortivo. Margherita non ha il compito di dare il Norlevo a chi lo chieda; le compete di consegnare un modulo che permette di recarsi a chi è autorizzato a somministrarlo. Poiché è ben consapevole che la sua azione rappresenta comunque un antecedente causale di un possibile aborto, inizia un dialogo con i ragazzi: illustra loro gli effetti del prodotto e le possibili controindicazioni. Deve avere buoni argomenti, perché i suoi interlocutori non insistono e lasciano il pronto soccorso. Qualche zelante collega informa la struttura nella quale Margherita lavora, viene avviato contro di lei un procedimento disciplinare e le viene prospettato un trasferimento in altra sede. La giovane infermiera dà le dimissioni per non piegarsi a quella che legge come una intimidazione e la Asl di Pavia le accoglie.
Margherita ha sbagliato? Assolutamente no. L’art. 9 della legge 194/1978 riconosce l’obiezione di coscienza non solo al medico, ma a tutto il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie, con riferimento non solo agli “interventi” bensì pure alle “procedure” finalizzate all’aborto.
Esistono varie forme di discriminazione: possono fondarsi sul sesso, sull’età, sulla razza; il nostro ordinamento le vieta tutte. La Asl di Pavia ha discriminato Margherita due volte: prima minacciandola di trasferimento in altra sede per punire un’attività conforme alla legge e alla coscienza; la seconda accettando in tempi-record dimissioni condizionate dall’agitazione. E non è che una discriminazione è meno grave perché non va sulle prime pagine dei quotidiani nazionali o non apre i tg; si immagini quale clamore avrebbe avuto – e con ragione! – la minaccia di trasferimento di un dipendente della Asl perché omosessuale: i media ne starebbero ancora parlando e il Parlamento avrebbe dedicato sedute monotematiche all’episodio. Accade invece la discriminazione ai danni di una giovane donna perché rispetta la deontologia sanitaria che impone di agire per la vita e non per la morte, e non un cenno in Parlamento, neanche a fine seduta; non una interrogazione; non un intervento del ministro della Salute; non una protesta di chi si occupa di pari opportunità; non un delegato sindacale che abbia da ridire.
Vogliamo che Margherita se la veda da sola? O pensiamo che il suo gesto di difesa della vita, tanto più coraggioso in quanto pagato con la probabile perdita di un lavoro guadagnato con onore, merita di starle a fianco finché le sue sacrosante ragioni siano riconosciute?
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