40 anni fa moriva il grande regista teatrale e cinematografico Luchino Visconti (Milano, 2 novembre 1906 – Roma, 17 marzo 1976). Per l’occasione, che nel nostro paese non è stata dovutamente celebrata e commemorata, l’Università di Trieste ha coinvolto in un suo progetto di ampio respiro sulla figura di Visconti docenti di diverse discipline quali Letteratura italiana (Cristina Benussi, Tiziana Piras e Enza Del Tedesco), Storia del teatro (Paolo Quazzolo), Storia del cinema (Luciano De Giusti) e Storia dell’arte contemporanea (Massimo Degrassi). Il carattere interdisciplinare di questo studio, che è stato presentato martedì 15 novembre presso la Biblioteca Statale Stelio Crise nel corso di un incontro promosso dal Circolo della Cultura e delle Arti, è già un’illustrazione per sommi capi delle molteplici facce della cultura e dell’arte di Visconti. Quest’incontro è solo una delle tappe del percorso di approfondimento della figura e dell’opera del regista: in primavera infatti ci sarà un convegno a lui dedicato e verso la fine del 2017 l’intero iter di studi e di ricerche dei docenti coinvolti verrà raccolto in un volume.
Luchino Visconti ha vissuto in prima persona gran parte dei travagli storici e culturali del Novecento, ne ha assorbito i fermenti spirituali, i contrasti, gli snodi, le inquietudini e la tragicità. Di nobili origini, fu nobile anche nello spirito e nell’ispirazione artistica. Letteratura, cinema, teatro e arte: le quattro discipline coinvolte nell’omaggio dedicato dalla nostra Università a questo grande uomo di cultura prima ancora che regista, sono indicatrici della ricchezza tematica e stilistica di Visconti. Vastissime e intense le sue letture, appassionata la sua precoce frequentazione dei teatri di prosa e di lirica, spontanea e quasi innata la sensibilità per la grande musica classica, sullo sfondo di quel culto per la bellezza in tutte le sue forme che effuse sulle sue opere un’aura inconfondibile. Figlio del duca Giuseppe Visconti di Modrone e di Carla Erba, la cui famiglia era proprietaria di una delle più famose e redditizie case farmaceutiche italiane, Luchino non ebbe un buon rapporto con gli studi scolastici, troppo inquadrati e aridi per la sua personalità inquieta e profondamente ricettiva. Il suo apprendistato fu libero, come per gran parte dei rampolli delle famiglie nobili. La grande cultura europea respirata nel salotto della sua famiglia, i viaggi, le amicizie, le letture — leggeva contemporaneamente più libri e li finiva in poco tempo, dedicando ai maestri della letteratura europea classica e moderna notti avide e insonni —, la partecipazione attiva alle vicende del suo tempo: il suo fu un apprendistato vivo, diretto, coinvolto e sentito, mai erudito o nozionistico.
Dopo alcune esperienze giovanili di lavoro presso una scuderia di cavalli di sua proprietà, nel 1936 inizia la sua attività artistica in Francia, come assistente alla regia e ai costumi di Jean Renoir, il grande maestro del realismo, che gli trasmette una visione progressista della storia e gli ispira quei sinceri sentimenti antifascisti che più tardi, rientrato in Italia, il regista esprimerà partecipando alla Resistenza. La morte dell’amatissima madre, nel 1939, lo richiama in Italia dove, trasferitosi a Roma, dà inizio al periodo neorealista del suo cinema. Visconti si può considerare il fondatore del neorealismo in Italia, con il suo primo film “Ossessione”, tratto da “Il postino suona sempre due volte” dell’americano James Cain. Un cinema nuovo, ribelle agli artefatti e ipocritamente spensierati film dei cosiddetti “telefoni bianchi”, un cinema che partecipasse alla miseria e alle sofferenze dei ceti più umili e oppressi. Al neo-realismo Visconti consegnerà opere indimenticabili come “La terra trema” (1948), tratto da “I Malavoglia” di Giovanni Verga, sorta di documentario interamente recitato in dialetto, e lo splendido “Bellissima” (1951) con Anna Magnani, film capolavoro che mette a nudo il volto cinico e spietato del mondo del cinema.
Nel 1954 firma il primo film a colori con “Senso” tratto da un racconto di Camillo Boito, opera figurativamente accuratissima e interpretata con intensità più che realistica, forse già presaga dei futuri fremiti estetizzanti del regista più maturo. Luchino nel frattempo è impegnato anche nell’allestimento teatrale di opere di prosa e di opere liriche (memorabile il suo lavoro con la sublime Maria Callas). Di matrice neo-realista, sia pure con venature estetizzanti via via più marcate, sono anche le successive pellicole come “Le notti bianche” (1957), film tratto dal romanzo breve di Fëdor Dostoevskij, e “Rocco e i suoi fratelli” (1960), entrambe pellicole dalla fotografia rarefatta e impeccabile di ambienti ancora popolari, ma pur sempre guardati con l’occhio dell’aristocratico sensibile e dal gusto prezioso.
Questo culto per la bellezza e lo stile impeccabile nella costruzione degli ambienti e della loro atmosfera, sempre saldati — a dispetto di molti appunti negativi di certa critica scontenta — a contenuti profondi ed emblematici, si accentuerà via via con il tempo nei successivi film: “Il Gattopardo” (1962), “Vaghe stelle dell’orsa” (1965), “Lo straniero” (1967), “La caduta degli dei” (1969). Quest’ultimo film, che narra l’ascesa e la successiva decadenza morale e materiale di una famiglia proprietaria di una delle più potenti acciaierie tedesche all’epoca del regime nazista, rientra nella cosiddetta trilogia tedesca con “Morte a Venezia” (1971) e “Ludwig” (1973). Visconti fu sempre una grande cultore e conoscitore della cultura e della letteratura tedesche, come dimostra la trasposizione filmica, struggente e lirica, del racconto di Thomas Mann “Morte a Venezia”, che narra la parabola di decadenza dell’uomo di cultura e dell’artista del primo Novecento deflagrato ormai, nei suo principi e valori tradizionali e saldamente borghesi e positivi, dall’irrompere di forze demoniache nella coscienza. Questa disgregazione interiore innescata dalla crisi e dal disfacimento morale dell’Occidente europeo, è colta in tutta la sua tragicità nel film “Ludwig” centrato sul re di Baviera Ludovico II, visionario, idealista e romantico, simbolo di una coscienza estetica travolta dalla brutalità della storia e della politica. Visconti visse con sofferenza questa stessa crisi e lacerazione, ma più avanti nel tempo, negli anni della sua vecchiaia, allorché tutto ciò in cui aveva creduto, i miti e le passioni della sua giovinezza e i valori culturali e morali respirati nella sua famiglia, vennero travolti dalla ribellione del ’68, con l’avvento di una nuova generazione priva di contenuti e nemica di quella bellezza estetica ed etica tanto cara al regista.
Dopo la malattia che lo colpì nel 1972 e lo rese in parte invalido, Visconti espresse questa sua nostalgia, e il senso di infelice spaesamento in un mondo oramai a lui estraneo, in quello che è considerato il suo testamento spirituale: “Gruppo di famiglia in un interno” (1974), storia di un anziano professore che vive isolato in un antico e barocco appartamento di Roma, tra i suoi ricordi, i suoi libri e le sue rassegnate nostalgie, finché la sua esistenza non viene sconvolta dall’arrivo di una famiglia stravagante e rumorosa al piano di sopra. Se dietro l’anziano professore, disturbato nella sua quiete profonda e malinconica, si indovina la figura del regista, dietro la famiglia disordinata e sin troppo spregiudicata che entra nella sua vita con la violenza di un uragano si intuisce l’irrompere di una modernità sorda e stupida, brutale e priva di valori, che non ha più nulla che le stia veramente a cuore, che tutto calpesta, dispregia e consuma lasciando solo cocci e cenere dietro di sé. E anche se il professore ad un certo punto inizierà ad amare questa strana dirompente famiglia e dichiarerà di voler fare qualcosa di buono per lei, il finale spazzerà via questo ultimo sprazzo di luce e di calore nella sua vita orami spenta e appassita. Non gli resterà che ascoltare, nel ritrovato silenzio della sua dimora ovattata e solitaria, i passi cadenzati e sempre uguali di un nuovo inquilino dell’appartamento sopra il suo: la morte, l’ultima compagna rimasta con lui.
Nel 1976, poco prima di morire, Visconti firmerà la regia di “L’innocente” (tratto da un romanzo di Gabriele D’Annunzio), un monumento estetizzante ai miti del passato e in particolare alla ormai lontana e trascorsa sensibilità decadente dei primi anni del ‘900. Il senso della bellezza è sempre stato un tratto distintivo del regista, un’eredità famigliare, che si è andata accentuando via via che gli anni passavano e il vecchio mondo, con i suoi riti, la sua cultura, il suo senso del bello e la sua passione per l’arte, andava tristemente tramontando. In questo senso Visconti è tutto da rivedere, leggere e riscoprire. In particolare alla luce di questa sua nostalgia, così significativa in tempi di decadenza culturale come quelli che stiamo vivendo. Luchino, quando era giovane e sul set o sul palco del teatro le sue attrici arrivavano tardi, magari nervose e in disordine dopo una delle classiche notti della “dolce vita”, era solito ricordare sua madre, l’amatissima e mai dimenticata madre, ideale femminile perfetto per lui, fantasma inseguito nel volto di ogni donna: «Mia madre nelle primissime ore del mattino era già pronta a ricevere nel suo salotto, inappuntabile e curatissima, sempre sorridente e fresca. Non l’ho mai vista in disordine, in ritardo o di cattivo umore». Un omaggio alla persona che più contò nella sua vita e che negli anni più tardi il regista evocò nelle scene dei suoi film, dietro personaggi femminili eterei e stupendi, vestiti come lei, dolcissimi e ormai irraggiungibili. Dietro le velette appuntate su magnifici cappelli, sfumano volti delicati che sorridono misteriosamente, come la madre di Tadzio in “Morte a Venezia” o la stupenda madre del professore di “Gruppo di famiglia in un interno” ritrovata negli anfratti della memoria e immortalata per sempre nella radiosa giovinezza di un tempo ormai finito. E se Luchino in giovinezza era stato uno spirito rinnovatore e progressista, via via che si andava dispiegando un’epoca nuova figlia di precedenti antinomie e contrasti irrisolti, il regista dovette amaramente constatare che la libertà per cui lui e i suoi compagni di battaglia avevano rischiato la vita aveva portato in realtà a un’epoca di decadenza e imbarbarimento (gli anni ’60 e ’70 del Novecento). E forse i suoi ultimi film furono un dolente tentativo di resuscitare il mitico universo della sua infanzia e della sua giovinezza, allorché la vita era ancora rischiarata dagli occhi vivaci e profondi della madre Carla, simbolo irripetibile di un mondo di bellezza, armonia ed equilibrio che non sarebbe più tornato.
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