L’irriproducibile coscienza umana




Le neuroscienze, orientate dai sempre più sofisticati sviluppi della tecnologia, hanno trovato nei nuovi scenari aperti dalla costruzione di intelligenze artificiali un campo di studio e di confronti molto fecondo e allo stesso tempo estremamente problematico. Al fondo di una molteplicità di indirizzi di ricerca e di elaborazione teoretica e pratica, si possono individuare due visioni opposte: da una parte ci sono coloro che studiano il cervello nell’illusione che in uno scenario futuro sarà possibile riprodurre l’intelligenza e la coscienza umana in macchine di laboratorio capaci di svolgere tutte le funzioni pratiche e intellettuali fino ad ora appannaggio esclusivo dell’uomo; dall’altra coloro che, via via che studiano i meccanismi di funzionamento del cervello e le molteplici e raffinatissime facoltà umane che, attraverso questi meccanismi, si esprimono, vanno sempre più scoprendo l’eccedenza dell’umano rispetto agli organi fisici che fanno da medium al suo essere, considerato integralmente. Questi ultimi si ricollegano in qualche modo alla grande antropologia classica che, partendo dalla nozione di anima come principio organizzatore della materia, riconosceva all’umano capacità trascendenti la propria conformazione chimica e biologica.
“Il futuro fuori dalle facili rassicurazioni: per guardare in profondità e leggere fra le righe dei tempi che verranno” è il leitmotiv della 3ª edizione de “Il futuro è oggi”, il ciclo di incontri promosso dal Gruppo Cgn con la Fondazione Pordenonelegge.it, a cura degli scrittori Gian Mario Villalta e Alberto Garlini, partito mercoledì 14 febbraio. Il ciclo di incontri prevede tre appuntamenti centrati sui nuovi scenari aperti dalla scienza nei più diversi ambiti del sapere. In particolare, Giuseppe O. Longo parlerà su “Paesaggi del post-umano” che tratterà il tema delle trasformazioni indotte nelle nostre esistenze da intelligenza artificiale, cibernetica, algoritmi, automazione, tutti elementi che mettono in discussione i paradigmi dell’umanesimo e della centralità dell’uomo.
Le discussioni su tematiche di questo genere offrono il destro a una riflessione sulla persona umana e sulla sua identità, entrambe esposte come non mai al rischio di un riduzionismo che le inquadra in una cornice vitale di natura strettamente biologica, senza alcuna attenzione per le loro indiscutibili aperture all’essere. È la stessa ragione, guidata dai sensi esteriori ed interiori ad elaborare la propria esperienza della realtà, ad essere capace di riconoscere questo di più che distingue l’essere umano da tutte le altre creature. Come accade nell’ambito di tutte le altre branche della scienza — perlomeno quelle disponibili ad interrogarsi e a lasciare spazio all’imponderabile — che quanto più si inoltrano nello studio e nell’osservazione dell’universo, tanto più prendono coscienza che il caso non può in nessun modo essere il padre di tutte le cose, così le neuroscienze, via via che espandono e affinano le proprie conoscenze del cervello e delle sue funzioni, trovano tante e tali incognite da dover via via rivedere le proprie convinzioni e i propri parametri di studio. Il cervello, come organo fisico, in se stesso, come materia organica vivente, non può da solo, a dispetto della sua stessa complessità, rendere ragione di quel quid che fa dell’uomo ciò che è. Anche se la persona umana condivide con gli altri viventi l’appartenenza a una sfera biologica fatta di funzioni organiche e fisiche tese al mantenimento dell’unità vivente sul piano materiale, allo stesso tempo se ne allontana in virtù di una serie di proprietà indisponibili e inimitabili.
L’uomo è la sola creatura che, pur legata alla materia vivente e ai suoi dinamismi, trascende al tempo stesso questa dimensione fisica con la ragione, il pensiero e la coscienza. È dunque la sola creatura capace di organizzare le proprie esperienze, corporali, intellettuali e spirituali, in visioni della realtà e della vita che partono sì dalla realtà e dalla vita, ma anche le superano in una lettura aperta all’essere e al trascendente. L’uomo pensa, elabora quadri interpretativi del mondo e di se stesso, si eleva al di sopra del contingente e si proietta verso il futuro, adopera il linguaggio per comunicare agli altri il proprio vissuto, si sente orientato verso un fine e chiamato ad un compito in cui il corpo e la mente collaborano e si scambiano le proprie esperienze. Queste esperienze vengono poi fuse e rielaborate in una superiore sintesi che va a formare un quadro di lettura di tutto il reale aperto a futuri apporti e cambiamenti.
L’uomo, a meno che non intervengano disfunzioni indotte da malattie o incidenti, sa istintivamente distinguere tra bene e male. È dunque culturalmente ed eticamente connotato, dotato di una coscienza di sé e del mondo che lo solleva al di sopra del contingente e lo rende capace di pensare la propria stessa coscienza, i suoi meccanismi di funzionamento. Conosce e al contempo osserva il proprio atto conoscitivo, sente e al contempo studia l’oggetto del proprio sentire e i dinamismi stessi dell’atto del sentire. Avverte la tristezza come la gioia, ma ragiona anche nello stesso tempo sul significato della tristezza e della gioia e sui modi in cui queste, come tutti gli altri stati d’animo, si esprimono e si manifestano nella coscienza. Perché sono triste? Che cosa mi fa sentire triste? Che cosa sto pensando? Perché e come io penso? Che cos’è quest’intuizione profonda e misteriosa di presenza a me stesso, come un Io che io vedo e sento, che posso osservare dall’alto come un oggetto postomi di fronte, ma nel quale tuttavia io esisto e sono? Sono una coscienza ma anche una coscienza della mia coscienza. Questo si domanda l’uomo se guarda in profondità dentro di sé e se si osserva mentre vive, nella sua interezza. E più sprofonda in se stesso più si rende conto di non poter essere ragione a se stesso, ma di avere un fondamento che lo precede e grazie al quale egli “è” ciò che è: un principio ontologico, trascendente e metafisico, che sopravvive alla morte fisica.
Tutte queste ragioni, per quanto appena abbozzate, ci fanno capire che l’uomo vive sul crinale tra la sfera del bios e la sfera intangibile dello spirito, tra contingenza ed eternità. Ognuno di noi è legato ad un corpo che lo fa esistere e anche essere ciò che è, ma è anche superiore ad esso per la coscienza che ne possiede e per un’intuizione, più o meno chiara e riconosciuta, del finalismo iscritto nella sua natura. Di qui al riconoscimento, anche solo razionale, di un fine ultimo di natura ontologica e spirituale, il passo è molto breve. L’uomo sa di essere uomo e vuole capire in che cosa consista questo suo essere. Il cervello in questo senso è un medium che guida e a suo modo, e anche condiziona, tutte queste operazioni. La sua complessità e l’emergenza, attraverso i suoi meccanismi biochimici, di un’eccedenza di natura non materiale — in primis la coscienza — sono il limite invalicabile di ogni tentativo di riprodurre la vita in laboratorio e di creare un’intelligenza artificiale speculare a quella umana. Una macchina non sarà mai in grado di avere coscienza di se stessa, di riflettere sulle proprie ragioni di esistere e di interrogarsi sul proprio essere. Una macchina è costruzione dell’uomo, non creazione. La creazione appartiene al divino che dal nulla trae l’essere. Per questa ragione alla macchina manca e mancherà sempre un principio ontologico che la definisca come creatura vivente, pensante e cosciente, principio ontologico che fonda la creazione divina dell’umano e che l’uomo non può dare alle sue costruzioni. Una macchina non si farà mai domande su stessa.
Il domandare inesausto, che accompagna l’uomo per tutta la sua vita, è il segno della sua vera natura, che è sempre già e non ancora, espressa sì dai suoi meccanismi biologici, ma sempre eccedente rispetto ad essi e immancabilmente tesa oltre il proprio essere “qui” ed “ora”, chiusa in un individuo contingente e mortale, mentre dentro di sé avverte un anelito insopprimibile all’infinito e all’immortalità. Vi è un di più che sfugge ad ogni classificazione e dimostrazione sperimentale. La ragione coglie questo quid, ma come in figura, in uno specchio, nell’attesa di vederlo faccia a faccia quando anche il corpo — nient’affatto strumento temporaneo di qualcosa d’altro che non ha nulla a che fare con le sue logiche, ma misteriosa e sofisticata interazione tra materia e spirito — sarà trasfigurato e reso glorioso, in una perfetta, quanto ancora inafferrabile, corporeità spirituale e spiritualità corporea, frutto della Resurrezione.

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