Lettere inedite tra Biagio Marin e Claudio Magris




Baudelaire, in uno dei suoi stupendi sonetti, paragonò il poeta all’albatros. Come l’albatros, quando è in volo, dimostra tutta la perfezione della sua eleganza e della sua maestà e quando invece plana sfinito sulla tolda di una nave ha un portamento goffo e impacciato, così il poeta è tanto sublime e maestoso quando cavalca le nubi dell’ispirazione quanto inetto e sgraziato quando cammina tra gli uomini e si trova a dover lottare con le difficoltà e gli ostacoli della vita reale. Solitamente gli Epistolari dei grandi artisti sono il luogo privilegiato su cui misurare questa abissale distanza: nella schiettezza e nella spontaneità del discorso privato e amichevole infatti vengono alla luce tutte quelle screpolature e macchie che lo smalto della creazione ricopre e nasconde.

La rivista letteraria “Il Giannone” ha recentemente pubblicato una sezione di lettere inedite tratta dal carteggio tra il poeta gradese Biagio Marin e Claudio Magris. Come in molti altri dei suoi Epistolari, Marin anche in questo caso lascia che la sua anima tormentata e incline al lamento mostri impietosamente i labirinti di una personalità scontenta, ossessionata dal bisogno insopprimibile di attenzioni, plausi e riconoscimenti. Il poeta gradese infatti, già gravato per tutta la vita dall’ombra dell’adorato figlio morto in guerra, visse sempre in una sorta di sottosuolo attraversato da ombre e fantasmi. La convinzione di non essere stato mai giustamente considerato e apprezzato, specie dai suoi “ingrati” concittadini, il rammarico per la maggior fortuna toccata ai suoi numerosi amici artisti e intellettuali, il rancore per quanti non seppero o non vollero valorizzarlo secondo i suoi legittimi meriti, tutto questo fardello di ossessioni lo accompagnò dalla giovinezza alla vecchiaia, appesantendosi fino alla mania negli anni più tardi.

Eppure le sue liriche possiedono una leggerezza, un’intuizione perfetta dell’essenza profonda di tutte le cose, una sensibilità eccezionale nell’avvertire e tradurre in suono le percezioni più sottili e impalpabili e le risonanze remote ed arcane della vita in tutte le sue forme. Un grande poeta, che possedeva il raro dono dell’ascolto e la raffinata facoltà di assimilare gli echi dello spirito e di rimodellarli in una composita e perfetta melodia.

Raramente accade che un poeta riesca ad equilibrare con facilità la propria parte razionale con quella irrazionale, la propria umanità con il proprio talento creativo, le esigenze della vita reale con i richiami della vita interiore. Se consideriamo le biografie dei più grandi artisti, troviamo sempre questa asimmetria tra l’uomo e l’artista, questo sbilanciamento tra l’arte del volo libero e sapiente, in cui l’albatros spicca il suo balzo verso il cielo, e il più schietto e materiale mestiere di vivere, in cui l’uccello marino cade sul ponte della nave e viene travolto dai flutti del mare. Giovanni Pascoli definiva il poeta un “fanciullino” forse anche per questa sua congenita “ignoranza” dei costumi del mondo. L’arte è davvero un fanciullo che gioca, che canta e che sorvola il mondo come un danzatore, ora felice ora spaventato dalle stesse altezze che la sua danza gli fa toccare. Grazie al cielo ci sono stati sempre dei “numi” tutelari che hanno vegliato su questo volo folle e straordinario, ora nella veste di amici, mecenati e sodali, ora nella veste di famigliari devoti e amorevoli. Pensiamo alla sposa e alla figlia di Umberto Saba o alla saggia e pacata moglie di Italo Svevo. Cosa ne sarebbe stato di loro se fossero stati soli o abbandonati?

L’elogio dell’arte è sempre anche elogio della pazienza e della fedeltà con cui tante anonime creature, nel nascondimento e nella fatica di addossarsi tutte le responsabilità e i fardelli del vivere, hanno reso possibile l’arte stessa, sostenendo come madri i fanciulli danzanti, queste piccole divinità capricciose e geniali, creatrici di mille fantastici universi, ma sempre bisognose di qualcuno che le incoraggi e le tenga saldamente per mano ad ogni passo.

 

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