L’eleganza del riccio




Da quanto riportato alcune settimane fa sul nostro quotidiano, non sembra che la sortita a Trieste del mago Casanova di “Striscia la Notizia” abbia suscitato grande movimento di ammiratori. La notizia non è certo nuova, ma giova riprenderla come aggancio per una puntatina nella colorita “galassia” caratteriale dei triestini.

Pontile allungato o meno, l’illusionista e la troupe che lo accompagnava non hanno trovato nei passanti quell’ammiccamento e quell’entusiasmo che di solito circonda i beniamini del mondo dello spettacolo. Niente di nuovo per noi triestini, il cui carattere è da sempre schivo, discreto, non facile ad abbandonarsi a scomposte manifestazioni di plauso o sorpresa per il divo di turno.

Riprendendo un celebre libro francese, metterei il suo titolo, “L’eleganza del riccio”, come epigrafe a questo breve profilo. Il triestino doc è figura pensosa, raccolta, a suo modo severa e un po’ruvida, che prima di esprimere un sentimento, una convinzione o un gusto, osserva, studia, soppesa e solo quando è convinta del valore di una cosa si esprime e tributa la propria lode a qualcosa o a qualcuno. Quando il cuore è colpito, lo è davvero e solo allora svela tutta la sua generosità, la sua simpatia e il suo calore umano.

Da noi gli attori più famosi possono girare tranquillamente per le vie della città, magari scoprendo, con qualche nostalgia dei climi più caldi ed esuberanti di altri luoghi, che la tanto ricercata libertà di essere delle persone comuni – dichiarazione tra le più diffuse sulle labbra dei divi – non è poi così piacevole e allettante. Ho un ricordo personale, a me molto caro, che ben illustra questo nostro carattere così simile al paesaggio dell’altipiano carsico, pietroso e brullo nei suoi sentieri, ma insieme frondoso e ricco nei suoi boschi, splendidi d’autunno, quando il sommaco brilla come cinabro.

Qualche tempo addietro ero in contatto con un’anziana signora che abitava sola in un appartamentino da bambola al piano terra di un vecchio edificio. Era lieta, serena e dolcissima, nonostante le infermità e i tanti impedimenti. Da poco aveva perso la sorella, una di quelle anime belle che ardono come lumi splendenti dietro cortine molto spesse e ben protette. Frequentando questa signora così delicata ― con i suoi capelli bianco-azzurrini mi ricordava una di quelle fate madrine tenere e misteriose delle fiabe di Mamma l’Oca scritte da madame d’Aulnoy ―, piano piano ho scoperto che la sorella teneva un diario di poesie e che lei da giovane, quando era maestra alle scuole elementari, si dilettava a fare dei ritratti a matita dei suoi “pupetti”, come amava chiamare i bambini della sua classe.

Ho letto le poesie e ho visto quei disegni fatti a matita: quanta arte, che tocco vibrante, quale dolcezza e quale lieve letizia. Con le parole non riuscirei mai ad esprimere la bellezza angelica di quei volti che brillavano come stelle. Al primo tentativo di complimento, la dolce signora chiuse il suo quaderno e lo ripose in un cassetto tra mille altre cose gettate lì alla rinfusa. “Disegnetti”, disse cambiando discorso. Mi piacque talmente tanto l’arte squisita e segreta delle due sorelle, che mi misi a sognare una pubblicazione delle poesie e una mostra di quegli schizzi angelici. Provai ad abbozzare la cosa alla cara “fata madrina”, ma non ci fu mai modo né di riprendere il discorso né di avere almeno in prestito il prezioso quaderno per riguardare i ritratti. “Non ricordo dove è finito”, fu la sola risposta.

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