L’ecumenismo della bellezza tra Occidente e Oriente




L’anno giubilare, anche dal punto di vista delle iniziative di confronto ecumenico offre numerose possibilità di dialogo e approfondimento reciproco con il mondo dell’Europa orientale, qui ne segnaliamo brevemente una che al momento ci pare non del tutto valorizzata a pieno: quella dell’arte figurativa sacra. Nonostante i richiami autorevoli degli ultimi Pontefici in effetti la strada in questo campo è ancora in gran parte da fare, eppure forse mai come qui i punti di contatto tra la cattolicità latina e la cristianità slava sono numerosi e persino, in parte, interscambiabili. A un ragazzo che nasce oggi potrebbe apparire strano ma per secoli e secoli in Occidente la catechesi è avvenuta principalmente con la lingua delle immagini più che con manoscritti e libri, che conoscono una diffusione piuttosto tarda a livello di massa, e in termini di storia comparata relativamente recente. Praticamente già dai primi secoli l’evangelizzazione avveniva proprio sui muri dei luoghi di culto stessi che erano gli unici edifici che contenevano – letteralmente – l’alfabeto biblico. Da qui l’espressione ‘Biblia Pauperum’ con cui poi si qualificò il patrimonio educativo che si offriva pubblicamente agli occhi dei visitatori stupefatti delle nostre chiese. Più avanti, in pieno Medioevo, le cattedrali gotiche di alcune importanti sedi episcopali continentali furono chiamate non per niente ‘Bibbie di pietra’, per sottolinearne ancora l’eccezionale tesoro sacro parlante che contenevano mettendo insieme solo arcate, navate e capitelli. Se si vuole, persino un’idea come quella del Presepe – nata come noto dal carisma francescano – rientra originariamente in questa logica contemplativa di educazione catechetica visiva e immaginativa alla fede cristiana e ai suoi principali misteri. Si può senz’altro dire che il legame con l’arte figurativa, e l’immagine in genere, sia connaturato e sostanzialmente strutturale alle radici della latinità, praticamente da sempre. Non è tanto un fatto di capolavori pittorici o architettonici, come invece oggi in tempi di musealismo sfrenato si evidenzia, ancorché spessissimo lo siano evidentemente, ma proprio un fatto di culto e di preghiera, insomma di devozione spirituale. Da questo punto di vista, se possiamo fare una polemica, l’idea di far accompagnare le visite delle chiese a delle guide turistiche o – peggio ancora – a degli specialisti universitari di periodi e stili artistici ci pare un autogol di dimensioni clamorose. L’idea che passa allo spettatore è che la chiesa non sia così un fatto di popolo e per il popolo – come è sempre stata – ma esattamente l’opposto, una roba non adatta a tutti ma solo per iniziati e pochi altri. Gli oscuri esegeti affratellati del metatesto iconografico. Neanche fossimo una setta di gnostici. Roba da matti. E poi il fatto stesso di lasciare in mano la presentazione a una persona esterna – chiunque sia – contribuisce ulteriormente a dare l’idea che a chi lo abita oggi quell’edificio non dica più niente al punto che ci si può persino trovare di fronte a un agnostico che te lo spiega, appunto. Un agnostico laureato con lode alle belle arti, per carità, dottissimo e ben preparato, ma sempre un agnostico. Poi ci si meraviglia se quello che resta di tre ore di visita in duomo è il nome dell’amante segreta di questo o quell’altro artista e idiozie del genere.

In Oriente, invece, singole eccezioni a parte, le cose paiono oggi un po’ diverse nel senso che la sacralità dell’edificio è forse attualmente più riconosciuta e socialmente valorizzata, in alcuni contesti in maniera senz’altro più formale e rituale che reale, ma comunque pubblicamente osservata. Ed è singolare osservare che questo tipo di atteggiamento in fondo venga favorito anche e soprattutto dalla venerazione continua delle numerose icone davanti a cui ci si ferma e ci si segna ripetutamente in una processione praticamente senza fine che invano si cercherebbe da noi, dove le immagini dei Santi, di per sé, conoscono una devozione tendenzialmente più privata e intima che di massa. Tuttavia, forse proprio da qui potrebbe iniziare un nuovo dialogo ecumenico tra Occidente e Oriente: da noi privilegiamo i santini e da quelle parti hanno le icone eppure si tratta in fondo dello stesso tipo e dello stesso modo di spiritualità in cui è l’immagine sacra – per quanto semplice e persino asciutta – a richiamare nel cuore del fedele una nostalgia della bellezza eterna del cielo, invitandolo alla contemplazione delle cose di lassù, per dirla con San Paolo. Non a caso tra i massimi pittori della scena sacra – poi riprodotti di generazione in generazione ad infinitum, direttamente per copia o imitazione – abbiamo avuto dei religiosi consacrati, mica studiosi intellettualoidi e critici accademici. Qualche esempio tra i grandissimi delle due tradizioni? Beh, il nostro Beato Angelico era un frate domenicano e l’immenso Andrej Rublëv un monaco ortodosso. Ancora non siete convinti?D’altra parte, l’arricchimento sarebbe reciproco perché se è vero che gli slavi hanno conservato di norma una liturgia più solenne e ricercata ai giorni nostri e possono quindi dare il loro contributo attivo a ri-scoprire il primato della Presenza Reale da adorare nel silenzio maestoso del culto divino, dall’altra parte è pure vero che solamente in Occidente – e in particolare nel nostro Paese – l’arte sacra ha toccato una pluralità di generi, figure, temi e forme semplicemente straordinari e ineguagliati, come mai prima nell’intera storia dell’umanità. Il cammino sui sentieri della via pulchritudinis per la riunificazione spirituale dell’Europa, insomma, a cui quel grande polacco-romano che si chiamò Giovanni Paolo II teneva particolarmente (la sua entusiasmante Lettera agli artisti sul punto sarebbe sinceramente da rileggere dall’inizio alla fine), è ancora tutto da cominciare.

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