L’eclissi del tragico




La visione cristiana della vita, per quanto abbia il suo centro nell’evento più terribile di tutta la storia dell’umanità quale la passione e morte di Cristo, non si può definire tragica. È piuttosto il mondo greco classico ad aver edificato una concezione dell’uomo e della sua esistenza di carattere propriamente tragico. Il 27 agosto scorso, presso il Bastione Rotondo del castello di San Giusto, si è svolto lo spettacolo di parole recitate e musiche originali “Choròs – le voci della tragedia”, promosso dalla Cappella Tergestina per gli eventi culturali di “Trieste Estate”. Le musiche di scena, composte per il teatro antico dal 2005 al 2016 dal maestro Marco Podda, sono state eseguite dal Coro della Cappella Tergestina e dal suo Ensamble strumentale (quintetto d’archi, pianoforte, percussioni) con le voci recitanti di Giulia Diomede, Mirko Soldano e Giacomo Segulia. Lo spettacolo, che ha rievocato l’atmosfera del mondo tragico antico, ispira alcune riflessioni utili a capire il proprium della nostra fede e la rivoluzione da essa operata nella storia dell’umanità.
Ogni confronto con culture e visioni del mondo diverse dalle nostre è elemento portante della sempre provvidenziale inculturazione del cristianesimo, fonte di approfondimenti e illuminazioni decisive sulle ragioni e l’essenza del nostro credere. Se una fede non diventa cultura, affermava San Giovanni Paolo II, essa rischia di perdere la sua presa sul mondo e sulla vita reale delle persone. Per questo ogni occasione di confronto con gli apporti culturali delle più diverse discipline scientifiche ed umanistiche e con le letture del mondo proprie a contesti spirituali diversi dalla nostra tradizione — confronto sempre condotto sul filo di una consapevole distinzione di ambiti e di significati — devono sempre essere trasformate in occasione di maggiore presa di coscienza di ciò in cui crediamo. Nel caso di questo spettacolo, la rievocazione del mondo greco della tragedia illumina, per contrasto, la radicalità e unicità della svolta realizzata dal cristianesimo nella storia umana. Se leggiamo le grandi tragedie di Eschilo (Eleusi, 525 a.C. – Gela, 456 a.C.), Sofocle (Colono, 496 a.C. – Atene, 406 a.C.) ed Euripide, (Salamina, 485 a.C. – Pella, 407/406 a.C.) ciò che subito ci colpisce è un’atmosfera dolente e senza via d’uscita. Gli uomini sono mossi da una fatalità imperscrutabile che si compie sopra di loro e attraverso di loro senza che essi spesso ne abbiano colpa o responsabilità. L’ira di una divinità, lo spirito avvelenato di una stirpe maledetta (come gli Atridi), le stesse passioni provocate da divinità capricciose e vendicative, i decreti del Fato che procede come la macina di un mulino che tutto schiaccia per realizzare i propri piani oscuri, tutto questo fa dell’uomo una sorta di marionetta agitata da potenze esterne e poco benevole. Non vi è scampo nel mondo greco. E non solo perché la vita è sotto l’egida di inaffidabili forze spregiatrici della volontà umana, ma anche perché l’esistenza su questa terra è l’unica donata all’uomo che vive in ogni istante il dilaniante conflitto tra il proprio desiderio di vita e di permanenza e il proprio destino di morte. Questo dualismo implacabile spezza l’unità della vita e ne lacera il tessuto. Non esistono ricompense al bene operare: o si è felici qui, sotto il sole e il cielo trasparente, oppure si è condannati a vivere nell’eterno crepuscolo e nella disperazione senza fine del Regno delle ombre. Gli uomini sono foglie trascinate dal vento, fragili vasi di argilla che la morte frantuma. Delle persona che hanno vissuto rimangono solo pallidi e tristi simulacri che scendono nell’Ade stridendo come uno stormo di uccelli feriti e travolti dalla tempesta.
Già da questa descrizione si comprende la grande novità portata dal cristianesimo nel mondo. La storia vive una svolta senza precedenti: dove l’uomo greco è prigioniero di una fatalità cieca o comunque la pedina di un ordine superiore le cui trame gli sfuggono, l’uomo cristiano è istituito nella libertà e può operare delle scelte che condizionano il suo cammino sulla terra e il suo destino ultraterreno. Egli non è un dado che un dio getta a caso per giocare e dilettarsi con gli altri dei in un gioco crudele e inutile, una creatura di pena che non sa perché esista e perché debba vivere sulla terra. Il cristiano è parte di un disegno originario che lo ha istituito in una condizione privilegiata ed altissima. La sua fede non è un vincolo o una legge esterna, ma un ritrovare se stesso in Dio, una scoperta del proprio senso in quanto anello d’oro della più vasta e universale catena dell’essere che è sensata, motivata e orientata. Dove l’uomo greco non è padrone delle proprie passioni, l’uomo cristiano è dotato di risorse interiori capaci di vincere gli attaccamenti nocivi e l’influsso dei demoni. Dove l’uomo greco può aspettarsi solo una felicità terrena effimera e sempre parziale, frutto dei labili piaceri dei sensi, e non è sorretto da alcuna speranza in un dopo di gioia e di luce senza tramonto, l’uomo cristiano ha ricevuto da Dio la rivelazione delle strade da percorrere per costruire già qui una felicità durevole e superiore, che trionferà dopo la morte nella glorificazione di tutte le cose. L’uomo cristiano è certamente anche un uomo che conosce nella propria carne la tragedia del male e del dolore. La sua fede non annulla la sua condizione terrena di incertezza e di sofferenza, ma gli dona uno sguardo diverso che riesce a cogliere il filo d’oro della presenza di Dio già qui e ora, anche nel gomitolo aggrovigliato delle sue prove. L’Incarnazione, che dona all’uomo la forza di attraversare la vita con coraggio e speranza e di comprenderla nelle sue dinamiche e nei suoi perché, si compie nella Resurrezione che è il sole sfolgorante della fede cristiana, il più potente e luminoso che mai abbia brillato sulla faccia della terra. Qui lo scandalo greco del nulla e della morte senza speranza viene sovvertito ed annullato. L’Ade greco, buio e desolato ove volteggiano come foglie disperse le tetre ombre — eternamente malinconiche, stordite ed immemori — di coloro che non sono più, viene afferrato e spazzato via da un regno nuovo ove tutto è luce, pace e bellezza, per sempre. L’uomo esiste e vive per poter partecipare di questa condizione perfetta e beata, nella gloria di Dio. Niente più lacrime, niente più dolore, niente più paura. Il disperato eroe greco depone le sue armi, cessa il proprio pianto e infrange la coppa delle sue libagioni e dei suoi banchetti profumati e sontuosi in cui vibra sempre la tragica malinconia della fine. I suoi passi volgono altrove, attratti da una potenza quale mai l’uomo ha conosciuto o osato sperare.

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