Le rose di Giuliana Susterini




La rosa evoca l’idea della bellezza più di ogni altro fiore. Ce lo dicono i filosofi, i mistici, i poeti, i pittori e gli architetti. Universalmente la rosa, bella perché «è senza un perché» come scriveva il poeta e mistico tedesco Angelus Silesius (1624-1677), viene riconosciuta come il simbolo perfetto della pienezza spirituale e della traboccante ricchezza della vita.

Della mostra di Giuliana Susterini “Dipinti e disegni”, allestita al Caffè San Marco e visitabile fino al 21 febbraio, parliamo anche nella versione cartacea di Vita Nuova del 13 febbraio. Qui vogliamo soffermarci in modo più particolareggiato sui dipinti dell’artista dedicati alla rosa. Gentile, delicata, quasi timida nel suo mostrarsi, la corolla reclinata sullo stelo come il capo di una fanciulla su un esile collo: è lo stesso fiorire della rosa in tanti petali disposti a spirale e il suo raccogliersi, alle prime ombre della sera, in turgidi boccioli a significare il nascere, lo svolgersi e il compiersi del ciclo della vita, fisica e spirituale.

La rosa è la medicina che rende di nuovo umano il dissipato Lucio trasformato in asino da una maga della Tessaglia nel romanzo “Le Metamorfosi”, o “Asino d’oro”, di Apuleio (II sec. d.C.); la rosa è la mistica corona dei beati che vibrano di amore e di luce intorno alla Vergine nel Paradiso di Dante; la rosa è il simbolo della bellezza e della sapienza nel poema medioevale “Roman de la rose”, iniziato nel 1237 da Guillaume de Lorris e ripreso 40 anni dopo da Jean de Meun che lo portò a termine tra il 1275 e il 1280; la rosa è il modello dei rosoni che adornano le antiche cattedrali, cifre dell’eterno germinare della vita, in un moto senza fine.

Il “Roman de la rose” viene spesso presentato come un semplice romanzo cortese in cui dietro la figura della rosa si cela la donna amata. In realtà è molto di più. Clive Stapleton Lewis (1898-1963) l’aveva capito e ne aveva parlato con acume e intuizione profonda in un suo saggio, non molto noto ma di rara eleganza: “Allegoria d’amore: saggio sulla tradizione medioevale” (1936).

In un giardino punteggiato di fiori, di gemme, di spezie e di animali dei più diversi e belli, il protagonista del “Roman” vive un’avventura straordinaria, solo in superficie finalizzata all’esposizione delle regole dell’amor cortese. In uno sfarzoso intreccio di allegorie che sfila in campo innumerevoli personaggi simbolo di vizi e virtù, il protagonista compie un percorso di purificazione ed elevazione interiore che si compie nel possesso della rosa di cui si è follemente innamorato. La rosa è l’approdo del suo amore e della sua ricerca, in un cammino di difficile conquista che impegna l’anima in un serrato confronto con se stessa, con le proprie luci e le proprie ombre.

Nei rosoni delle cattedrali romaniche e gotiche questa simbologia viene arricchita spesso dal monogramma del Cristo posto al centro: essendo la rosa, nella sua stessa forma, un’immagine speculare del cosmo antico con i suoi cieli riavvolti l’uno nell’altro, il monogramma indica la signoria assoluta del Cristo sull’universo. È la forma stessa della rosa ad evocare questo significato: la forma a spirale, che è la medesima della conchiglia, altro simbolo della vita naturale e spirituale ricorrente nell’arte antica.

La vista interiore riconosce nella rosa in modo immediato e intuitivo questo sottofondo di echi, rimandi e nessi impalpabili. Anche se l’osservatore non sa poi verbalizzare le proprie emozioni, davanti a una rosa l’impressione è quella di una totalità armoniosa e infinita, specchio della vita creata e increata nella vertigine del loro mistero. La medesima vibrazione ci coglie davanti alle rose di delicato avorio e voce sommessa della Susterini, che con mano sapiente e gentile ci regala non solo un fiore bellissimo da contemplare, ma anche quella segreta e impalpabile fragranza in cui l’anima ritrova, sia pure per poco, la propria eternità.

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