Si ha un bel promuovere festival e convegni. È come invitare tanta gente ad un banchetto senza aver preparato un buon cibo e un vino corroborante. Trieste ha una grande ricchezza nel proprio passato che non riesce a valorizzare.

Le ricchezze dimenticate di Trieste




Trieste è una città ricchissima di acque. Solo che noi non le vediamo. Sopra i ruscelli, i torrenti e acquedotti dell’antica città oggi scorrono strade, sorgono palazzi ed altri ne sorgeranno in futuro. Lo stesso destino hanno subito le grandi ricchezze di cultura e di arte presenti nei musei, nelle biblioteche e nelle ville patrizie. Ci sono, ma pochi ormai lo sanno o fanno finta di non saperlo. Anch’essi sono stati “interrati” da una gestione disattenta e “grossolana” delle nostre risorse. Così ci si ritrova nella singolare posizione di una città che vuole tanto proiettarsi nel futuro senza essere più capace di guardare e di conoscere il proprio prezioso passato. Un passato costruito da grandi uomini, come ad esempio Sartorio, Morpurgo e Rossetti. Questi protagonisti della vita economica, artistica e culturale della Trieste a cavallo tra ‘700 e ‘800 non fecero solo la ricchezza materiale di Trieste, ma anche e soprattutto la ricchezza umanistica fatta di libri, manoscritti e opere d’arte acquistate personalmente e messe a disposizione dei cittadini.

Il Museo petrarchesco e piccolomineo, allestito presso la Biblioteca Civica “Attilio Hortis” (Via Madonna del Mare, 13 – III piano), è uno dei lasciti più importanti del Rossetti. Esso raccoglie una vastissima raccolta bibliografica petrarchesca – la seconda al mondo dopo il fondo costituito da Willard Fiske a fine Ottocento presso la Cornell University Library di Ithaca (New York) -, codici manoscritti ed edizioni quattrocentesche acquistati dalla “Libreria Antiquaria” di Umberto Saba, alcuni dipinti del 1400, due stupendi cassoni nuziali raffiguranti i “Trionfi” del Petrarca. Della raccolta piccolominea fanno parte le “Lettere”, alcuni Brevi papali e l’albero genealogico della famiglia Piccolomini con l’illustrazione delle mitiche origini “romane” della stirpe.

Lasciando al lettore il compito gradevolissimo di visitare di persona e di conoscere più nei dettagli il materiale di questo Museo – notevoli anche gli “incunaboli”, modelli delle prime opere stampate ma ancora concepite con squisita sensibilità artistica -, ciò che vogliamo sottolineare è la cura, oggi in gran parte trascurata, che gli uomini d’affari della Trieste tra ‘700 e ‘800 riservarono alla costruzione non solo materiale, ma soprattutto etica e culturale di un ceto mercantile forte, preparato e consapevole del proprio ruolo.

Prendiamo Domenico Rossetti de Scander. Il padre lo indirizzò, come la maggior parte dei giovani di allora, allo studio del Diritto, nonostante la sua spiccata passione per la letteratura. Si laureò in Giurisprudenza a Vienna e impiantò i propri affari a Trieste, commerciando in granaglie e trasformando il volto del Borgo teresiano con l’edificazione di case destinate alla ricca borghesia cittadina. Ma la sua grande passione per la cultura non venne mai spenta dalla cura dei propri affari: di notte infatti leggeva e scriveva e durante il giorno trovava sempre tempo per intrecciare e coltivare relazioni e rapporti epistolari con gran parte degli intellettuali e degli artisti dell’Europa del tempo. Questa sua passione gli ispirò notevoli investimenti grazie ai quali dotò la nostra città di un vastissimo patrimonio di libri antichi e di opere d’arte. Tra questi appunto gli scritti e le opere del Petrarca e del Piccolomini.

Ma che cosa cercava il Rossetti in questi codici? Quali criteri guidavano le sue costosissime scelte? Se scorriamo i titoli ci appare subito chiara l’intenzione pedagogica e formativa: il “De viris illustribus” del Petrarca, ad esempio, ma anche le “Epistole” di Papa Pio II – capolavori di cultura, spirito diplomatico e avvertita conoscenza del vivere e dei costumi del mondo – e le stesse figure che intarsiano i cassoni nuziali e le cornici dell’albero genealogico, ci comunicano l’anelito del Rossetti all’esercizio della virtù, fondamento di ogni altra sfera della vita, anche politica, economica e civile. Senza le virtù che fecero grandi e saggi gli uomini del passato – virtù intese sul modello del Petrarca che fuse con singolare equilibrio la sapienza antica con quella cristiana -, nessuna impresa può riuscire e soprattutto durare. Una retta coscienza, abbeverata alle grandi fonti del sapere passato, è la base di un retto pensare, agire e giudicare. Un insegnamento, questo, che oggi avrebbe bisogno, specie nella sfera pubblica, di imitatori e seguaci.

La nostra città ha tanti scrigni preziosi, ma sembra avere poco interesse a disseppellirli e soprattutto a prendersene cura. Sembra che al ceto dirigente bastino le vetrine, come quella della scienza, una delle più decantate eccellenze della nostra città. Ma quale scienza?, viene da chiederci. Come l’economia e la politica, una “scienza” senz’anima, senza vita, senza contatti con le domande più profonde dell’uomo. Si ha un bel promuovere festival e convegni. È come invitare tanta gente ad un banchetto senza aver preparato un buon cibo e un vino corroborante.

 

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