Le poesie di Francesco Recanati




Chiara Galassi è una poetessa. Non aggiungo aggettivi, sarebbero ridondanti. Essere poeta è già un’affermazione di qualità, di talento, di ispirazione genuina, autentica. E da poeta la Galassi introduce una breve silloge di un altro poeta: “Marinaia la mente” (Leonida Edizioni, Reggio Calabria 2015, pp. 56, euro 12,00). L’autore è Francesco Recanati, nato a Penne nel 1988 e padre gesuita dal 2011. Le parole introduttive della Galassi, nata a Trieste dove vive tuttora — l’altro suo polo biografico, esistenziale e poetico è la città di Bari — viaggiano sulla stessa linea di onde e frequenze dell’autore, a conferma che solo un poeta può parlare della poesia di un altro, farsene interprete o, meglio, privilegiato ascoltatore.

“Marinaia la mente”: il titolo è insieme una dichiarazione di inquietudine e di ebbra passione di vivere. Il mare evoca l’idea del viaggio, della scoperta, della rigenerazione, ma anche della tempesta, del pericolo, dell’imponderabile. Il sostantivo “mente” invece proietta questa ricerca nell’anima, nell’intimo della coscienza, dove le leggi e i misteri del mare si ripresentano con la stessa ambivalenza di possibilità infinita e di pericolo.

Recanati cavalca con versi brevi ed eleganti l’onda spumeggiante del mare della vita, nelle sue efflorescenze, nelle sue fluttuazioni e nei suoi misteri. Attratto e insieme respinto dalla mutevole bellezza delle cose, il movimento della sua mente ora si slancia sull’attimo scintillante con una trepidazione gioiosa, ora si ritrae sbigottito e sorpreso, ammutolito dal silenzio inattaccabile della natura e della vita stessa nel suo fiorire. Con un frequente uso della figura retorica dell’ossimoro che accosta due concetti opposti — “l’imprevedibile conoscibilità”, “possiedi l’impossibile” — l’autore esprime la tensione che attraversa tutta la silloge: come un “equilibrista sul filo ardente” (“Cammino equilibrista”, p. 24) egli ascolta e assorbe la vita all’incrocio tra il transeunte e l’eterno, tra la molteplicità frantumata delle forme e la febbrile nostalgia di unità, tra il mutevole gioco del tempo e l’ansia di verità. La natura, nei suo versi, è figura femminea che srotola i suoi veli e i suoi drappi fascinosi muovendosi in danza silenziosa sotto gli occhi indagatori e inquieti del poeta. La mente si frange incessantemente su questa sponda lussureggiante e illusoria, divisa tra la gioia delle pure e belle cose visibili e l’anelito ad andare Oltre. Come raccordare l’attraente molteplicità della natura e dei sensi assemblando le disperse tessere, le sparse sillabe del Grande Discorso, in un mosaico definito, in un testo sensato e unitario? «Voce, / suono armonioso del vissuto, / che tra segni e simboli / rendi viva l’emigrata realtà» (“Voce”, p. 40): verso questa Voce, che armonizza tutte le voci, che decifra quella foresta di simboli rutilanti e belli che è la natura, verso questo termine alto e ultimo voga e procede la marinaia mente del poeta.

L’attaccamento tenace alla vita si intreccia con il desiderio di verità metafisica, il gusto della bellezza con un rimpianto dolente per Qualcosa che non muta, che certo esiste ma che sempre sfugge alla nostra debole ragione: «Vorrei decifrare il mare, / mettere in musica il vento. / Vorrei respirare canti / e accarezzare le curve / di ardenti costiere. / Vorrei sfiorare le stelle, / penetrare l’abisso del cielo, / leggere il mistero velato» (“Vorrei…”, p. 19).

E spesso, in questo vagare sul mare della vita, la Verità cercata si manifesta come lampo, come inafferrabile bagliore, brevissima epifania di senso, ma troppo labile per il desiderio umano di conoscere e capire. Irresistibile come un canto di sirene, è proprio questa Voce che ci chiama a vivere nonostante il buio, le tempeste, i gorghi, bella anche nel suo velarsi, nel suo occhieggiare a tratti qua e là, come fantastica creatura degli abissi.

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