Le Olimpiadi dell’alcol




Ai numerosi nuovi sport, che ogni giorno allungano la lista delle attività fisiche praticabili, ora se ne è aggiunto uno del tutto inedito e davvero singolare: il bere. Ci è mancato poco infatti che la nostra Università organizzasse la prima Olimpiade alcolica: un’occasione davvero unica per i nostri giovani studenti di misurarsi con la propria tenuta all’alcol.

La kermesse non ha avuto luogo per mancanza di iscrizioni. Il fatto che il progetto non sia andato in porto ci fa subito capire che si è trattato di una vera e propria boutade, una specie di scherzo goliardico tra “vecchi” amici in cerca di evasione.

Del resto nessuno ha bisogno di un’Olimpiade per ubriacarsi liberamente. Tutti possono farlo, basta una veloce puntatina al supermercato o al bar più vicino e chiunque può concedersi, in solitudine o in compagnia, una sosta nei paradisi, o meglio negli inferni, dell’ebbrezza.

L’aspetto più serio di tutta la questione non è certo l’idea peregrina e ridicola di un’Olimpiade del bicchiere – e la mancanza di iscritti lo conferma a chiare lettere -, quanto l’invasione silenziosa e capillare della cultura del bere nella nostra società. L’approccio più diffuso e superficiale nell’affrontare questa vera e propria piaga è quello di affrontare l’argomento dando risalto quasi esclusivamente al consumo di alcolici tra i giovani o ai casi estremi di abuso protratto e distruttivo “scaricati” nei vari Dipartimenti di alcologia. Eppure la tendenza all’abuso di alcol è ormai così diffusa e inconsapevole che si è persa quasi del tutto la percezione reale del fenomeno. Nessuno sembra accorgersi più che l’alcol, in tutte le sue tipologie e gradazioni, rischia spesso di diventare una piccola stampella che ci portiamo dietro ovunque. Per essere più socievoli, più brillanti, più simpatici, più entusiasti della nostra vita, più disinvolti nell’affrontare le difficoltà quotidiane. Si beve un aperitivo, poi un altro, poi un altro ancora e così via sino a sera – tanto ci sono gli stuzzichini che ammortizzano gli effetti più spiacevoli dell’ubriachezza. La birra da bere in allegria con qualche amico nel dopo-lavoro diventa la prima di una fila di boccali vuoti che ad un certo punto nessuno conta più (o è più in grado di contare). La radicata tradizione delle “osterie” e delle “osmizze” carsiche, eredità folcloristica dei tempi dell’Austria felix, ancora oggi amatissima dai triestini, se da un lato evoca i piacevoli pomeriggi primaverili ed estivi da passare sotto pergole frondose sorseggiando vino e assaporando sapidi “giardinetti”, dall’altro offre un terreno favorevole a questa silenziosa, lenta e graduale “effusione” – per dirla con parole poetiche degne del nunc est bibendum, traduzione latina di Orazio di un verso del poeta greco Alceo – di “vapori” alcolici in ogni angolo della nostra vita.

Lasciando da parte questi giochi letterari, vorrei fare spazio ad alcune semplici riflessioni. La ripetizione quotidiana di questo rito e la conseguente graduale assuefazione ai suoi effetti esilaranti trasformano poco a poco il bere in un’abitudine normalissima e quindi in una necessità via via ineludibile, come il mangiare e il dormire. Il grande problema dell’alcolismo comincia qui, dalla difficoltà, e spesso dall’impossibilità, di determinare il momento in cui il rito conviviale e festoso, che ha tra i suoi principali attributi l’eccezionalità, diviene abitudine e questa a sua volta necessità, fino alla malattia vera e propria. Il discrimine tra un modo sano di bere e uno malato è sempre labile e sfuggente.

Purtroppo su questo argomento ci sono molta ignoranza e pregiudizi. Nessuno conosce ad esempio le condizioni a partire dalle quali, secondo gli psichiatri e i centri che si occupano seriamente di alcolismo, una persona rientra o meno nella categoria di alcolista. Basta molto poco perché si corra il rischio di entrare a farne a parte o di rientrarci già a pieno titolo. Non è facile affrontare con equilibrio, onestà e rigore questa piaga terribile e silente. Intanto cominciamo a riflettere insieme, a interrogarci sui nostri stili di vita, sulle nostre abitudini, sulla nostra coerenza. Fare cultura è anche questo: rendere le persone sempre più capaci di capire se stesse e le proprie scelte esistenziali, più presenti a ciò che fanno e “veramente” sono, nel comune cammino verso cose giuste e buone. 

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