Le “Muse interiori” di Alessandra Spigai




In una sua raccolta di scritti filosofici, Romano Guardini si sofferma a considerare la profonda realtà del “volto”. Che cosa rende l’insieme delle linee e delle forme del nostro viso un “volto”, la nostra parvenza materiale un’unità vivente e parlante che ci tocca nell’intimo? È l’anima, quella voce nascosta che i lineamenti del volto traducono in un codice scritto, leggibile, comprensibile. Con i nostri occhi noi creiamo il “volto” dell’altro nel momento stesso in cui vi catturiamo l’anima e la comprendiamo.

La mostra di sculture “Muse interiori” della poliedrica artista Alessandra Spigai, in esposizione presso la Sala comunale d’arte di piazza unità d’Italia 4 dal 20 febbraio fino al 12 marzo, è una mostra di “volti” che ci narrano con sapienza e originalità la mitologia multiforme dell’anima umana.

Quei “volti” traggono dall’interiorità umana, dalle sue zone infere e celesti, le nostre “muse”, i “geni” e le “ninfe” che popolano le grotte, le selve e i ruscelli del nostro paesaggio interiore. Sono le Muse dell’amore, della terra, della giovinezza, del dolore, della malinconia, dell’illusione e del disinganno, della creatività e dell’entusiasmo. Esse non sono semplicemente scolpite dentro la materia grezza, ma ad opera del lavoro sapiente dell’artista esse scaturiscono, traboccano con una forza elementare e incontenibile dall’impasto denso e germinante del metallo o del gesso.

Nei movimenti tellurici, nelle nervature sottili, negli sfumati che percorrono le superfici in una trama di vasi e di azzurre vene pulsanti, l’artista dà voce all’urgenza e all’impeto con cui quelle Muse pretendono di essere portate alla vita. Sono le nostre abitatrici interiori, antiche divinità che un tempo abitavano l’Olimpo ma che ora popolano le terre incognite delle nostre anime smarrite e curiose, appassionate e sfuggenti.

Gli stessi titoli delle sculture sono nomi di “divinità”, o meglio, di “demoni”, nel senso di creature ambigue, sospese tra luce e tenebra, tra forze infere e celestiali, dotate della pericolosa libertà di venire all’esistenza o con “Grazia” – “Grace” è il titolo di una delle sculture – o sotto la funesta costellazione dell'”Invidia”, titolo di un’altra opera.

La Grazia è un incantevole busto di gesso dai colori giocati sulle nuance del quarzo rosa e del bianco con leggeri tocchi di un incarnato purissimo. I capelli raccolti con diligente cura, le labbra morbide e distese, il gesso modellato con tocchi dolci e delicati che spiritualizzano la materia in un un ribollire di trasparente alabastro fuso: la “grazia” è equilibrio, misura, pace.

Sotto tutt’altro segno l’“Invidia”, con la sua testa di Medusa dai crini di serpente, le arruffate ciocche di capelli che si annodano come contorte e nodose radici. Il volto è nascosto nell’incavo del braccio che cinge il busto con una sorta di spasmo doloroso: la sofferenza non sembra nascere dall’invidia in sé, ma dall’impotenza a liberarsi da essa, a gioire come la “Grazia”, o come la Musa dei “Vent’anni” che ha i capelli scomposti ma leggeri, tutte le sfumature verde-azzurro della vita e dei quattro elementi che nutrono l’esuberante speranza dell’avvenire.

In un continuo trascorrere tra le Muse benevole e le Muse inclementi dell’anima, la Spigai costruisce la sua moderna e originalissima mitologia secondo uno spartito in cui i coni d’ombra si alternano con gli sprazzi di luce. Al guerriero sfigurato e abbrutito – la scultura “Warrior” che raffigura un volto sorpreso proprio sul punto di disfarsi, di perdere ogni simmetria e riconoscibilità, quasi un demone lo devastasse dall’interno con lo spirito della violenza e dell’odio – succede la triade magnifica della “Natività”, con le tre figure del padre, della madre e del bambino, ancora nel grembo materno, strette in un inscindibile abbraccio. Il piccolo, non ancora formato del tutto, è un esile dolcissimo abbozzo di un candore immacolato che splende sul bronzo scuro dei genitori che lo cingono con immenso amore.

La sbarazzina e fidente figuretta femminile di “Want chance”, con le sue manine d’oro su cui posa un visetto graziosissimo dagli occhi trasognati, crea un aspro contrasto con la desolata “Innocenza perduta”. Posata su un basamento d’oro, questa scultura rappresenta un busto femminile di gesso, di un bianco solcato da aloni grigi: il volto tra le mani, una colata di pece nera che divora il candore della nuca e dei capelli. Come è diversa la sua desolata prostrazione dall’incanto che arde negli occhi della fanciulla-fata che cerca la sua occasione!

Il caleidoscopio della vita che cerca se stessa e il proprio senso si srotola sotto i nostri occhi come un tappeto, tramato di figure arcane e antichissime, primordiali e sempre nuove che incarnano le gioie e le paure, i sogni o gli incubi di ogni uomo. Un piccolo ma preziosissimo Pantheon dei nostri tempi e di ogni tempo, in cui le Muse e gli dei sono scesi dal Parnaso e dall’Olimpo per abitare nel bene e nel male, nella primavera e nell’inverno, l’anima creatrice e libera dei poeti. 

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