Cogliere l’attimo. Non nel senso oraziano che allude ai piaceri della vita, così effimeri da consumarsi nel limitato spazio di un giorno. Piaceri che, per la loro brevità, assomigliano alle effimere che vivono solo sino al tramonto, piaceri le cui fonti ogni giorno devono essere ricercate e ritrovate di nuovo. I sensi si stancano presto della ripetizione, si abituano ai loro nutrimenti, anche quelli più speziati; sono necessari altri cibi, più forti, più sapidi, altrimenti la noia spande grigia nebbia anche sui giorni limpidi di primavera e copre il cielo azzurro di una caligine impenetrabile.
L’attimo ricercato dalla giovanissima fotografa triestina Cecilia Rossetto è quel lampo pressoché inafferrabile in cui la bellezza profonda e immutabile delle cose viene letteralmente portata alla luce e dalla luce rivelata. È per questo che Cecilia, di recente protagonista di una originalissima mostra di fotografie presso lo Spazio espositivo “Herrath”, ha scelto di esprimersi con un mezzo oggi poco adoperato, se non da alcuni sparsi nostalgici: la vecchia buona Polaroid, indimenticabile pittrice di volti e di immagini avvolti sempre da un chiarore rosato e dolce. Le figure sono letteralmente ritagliate, impresse e svelate dalla luce che assume un chiarore e una sfumatura rosata inconfondibile, tra sogno e favola, in un tempo sospeso e in un luogo remoto che si frange e dispare in una fuga luminosa delicatissima.
Cecilia ha 20 anni, sta per iscriversi al Dams di Bologna per studiare Storia dell’arte e fotografia. Prima di passare alla Polaroid si è cimentata con una macchina fotografica digitale, come ce ne sono tante in giro. Ha anche lavorato presso alcuni fotografi e realizzato servizi per matrimoni. Non ama molto il carattere artificioso delle nuove macchine fotografiche digitali che consentono sempre nuovi ritocchi e aggiustamenti. Il tocco artistico e personale infatti viene sacrificato alla facile perfettibilità dei nuovi mezzi tecnici che rischiano di distruggere quell’aura di incanto che avvolge le cose e che va colta all’istante, così come si mostra e trascorre, senza poi lasciare traccia. Non c’è gusto nel correggere e nel contraffare. Cecilia ama la natura, la naturalezza, la spontaneità, nella vita come nella fotografia. Ama il magico sfumare delle figure colte dalla Polaroid in una luminescenza che ricorda il cielo all’alba o al tramonto, quello sfumare impalpabile dei contorni troppo netti che distilla da ogni istante la quintessenza di un apparire unico e irripetibile. La luce, specchio da cui affiora la bellezza profonda e segreta delle cose, è la meta a cui guarda con stupore e meraviglia, innocenza e grazia. Poiché la vita vera dell’uomo traspare dal volto, che illumina poi tutte le altre cose della natura e della realtà, la giovane fotografa si concentra sull’istante in cui il volto affiora dall’indistinto mare del tutto e inonda di splendore e di senso il creato. Amante della natura e del nostro carso, delle passeggiate contemplative in ascolto del vento e del tepore che la luce effonde in certe limpide giornate di autunno e di primavera, Cecilia è cresciuta in un paesino dell’altopiano, a stretto contatto con la natura, i suoi fiori, i suoi animali.
Questa attenzione alle cose umili e semplici, ai volti che danno senso ad ogni parvenza del mondo e alla luce madre di ogni vita, ci ricorda la poesia solo apparentemente semplice degli antichi lirici cinesi e giapponesi. Essi amavano, nel tempo libero dai gravosi impegni di corte, appartarsi in qualche capanna, vicino ad un fiume, con la profonda foresta alle spalle e un diadema di alte montagne, forse popolate dagli immortali taoisti, posto tutt’intorno a incoronare la magnificenza dell’aurora o della sera. Momenti speciali, in cui il creato sembra muoversi più pacato e lento, già assonnato e dolcemente stordito prima di entrare nel sonno notturno. Nel silenzio allora ogni minimo segnale di vita trasfigura in simbolo, in mistero, in rivelazione poetica. Il poco diviene misura di tutte le cose: la voce di un uccello che stride in lontananza, il vento tra le foglie, uno sciabordio d’acqua, forse una barca che ritorna, i passi di qualcuno sulla riva, l’umido odore del fiume nella sera, una voce che chiama e i canneti che sussurrano appena nella pace della notte vicina. Respirare questi silenzi così carichi di segnali e di presenze leggere è la vita della vera poesia che nel perituro e nel mortale trova la radice dell’eterno e dell’infinito. Niente rincuora più di queste pause assorte e vissute con parsimonia e sobrietà. Non si deve mai esagerare, neanche nella contemplazione e nell’estasi della poesia. Tutto deve essere a misura di quel poco che esala il profumo della vita nascosta. Il troppo spegne ogni cosa, la pace, l’ispirazione e la luce che rischiara la via. Questa luce palpita nelle fotografie di Cecilia che, nonostante la giovanissima età, ci parla del sole come fonte di vita e come simbolo dello splendore che ci fa vedere e capire il senso dell’esistenza. Scoprire il sole dentro di noi e poi irradiarlo intorno a noi: Cecilia riesce a farlo anche con una semplice vetusta Polaroid. Vi è qualcosa di più semplice, di più arduo e di più significativo di questo?
NON SOLO UNA VOLTA ALL’ANNO
Puntualmente ogni inizio dell’anno ci si augura pace, sperando non sia solo un auspicio ma un desiderio...
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