Già in altre occasioni abbiamo parlato dell’attuale tendenza a ridurre la creazione artistica a un meccanismo determinato da fattori chimici e fisici. Le neuroscienze infatti stanno poco a poco invadendo settori un tempo di dominio esclusivo dello spirito, come l’arte e le sue dinamiche. Mercoledì 12 novembre presso la Biblioteca Statale “Stelio Crise” si è svolta una conferenza del cardiologo Roberto Magris sul tema “Profili medici di grandi compositori”, in cui sono state passate in rassegna alcune grandi figure di musicisti la cui fisionomia artistica potrebbe essere spiegata oggi alla luce della scienza medica. Ogni epoca ha una sua concezione estetica, specchio dei valori, delle credenze e della cultura di una determinata fase dell’evoluzione umana. In questo modo l’estetica può essere vista come un microcosmo in cui i diversi periodi storici riflettono i punti di forza e di debolezza della loro visione della vita.
Passando in rassegna, dall’antichità ad oggi, queste visioni possiamo prendere coscienza di una progressiva degenerazione della cultura e della creatività umana. Dall’esaltazione aristotelica dell’arte concepita come mimesi conoscitiva del reale e strumento di purificazione dalle passioni si passa, sulla scia della diffusione del cristianesimo, ad un’altissima considerazione del poeta come vate e tramite della bellezza divina attraverso la propria arte quale incontriamo ad esempio in Dante nel Medioevo. Successivamente l’arte segue una parabola discendente che a piccoli passi la conduce a perdere la sua vocazione universale e a fare spazio ad una manifesta individualità e a un dispersivo soggettivismo. I temi sacri perdono allora importanza, l’uomo comincia a guardarsi dentro e a cercare di conoscersi secondo parametri immanenti, privi di qualsiasi riferimento al trascendente e al divino. Nella pittura ad esempio, a partire dal 1700, con delle avvisaglie significative già nell’epoca dell’Umanesimo e del Rinascimento, il soggetto sacro tende a scomparire cedendo il passo a soggetti profani come il ritratto, le nature morte e i miti della classicità.
Nel corso dell’800, il divorzio è oramai quasi del tutto consumato: a parte alcune grandi figure isolate, come Tolstoj e Dostoevskij, il positivismo e il naturalismo si impongono nelle grandi capitali culturali europee. L’artista non è più colui che contempla le immutabili verità dell’universo e si nutre delle linfe spirituali della vita, ma un compassato e freddo osservatore delle dinamiche sociali, come succede ad esempio in Zola. L’uomo diventa un “atomo opaco del male”, un “animale sociale” governato da race (appartenenza), milieu (ambiente sociale), moment (periodo storico) — come piaceva a Comte —, un frammento che naufraga nell’oceano di un mondo regolato da leggi fisiche ed economiche. Non vi è più alcun dialogo con l’Altro. Successivamente, come accade in tutte le epoche, si passa ad una visione antitetica, frutto di una reazione all’eccessivo determinismo dell’estetica precedente. Travolto da un mondo sempre più materialista e avido di profitto, l’artista rivolge lo sguardo in se stesso, nella propria interiorità lacerata e debole, facendo dell’arte il luogo di espressione dei propri impulsi, desideri ed emozioni. Che guardi all’esterno o all’interno di se stesso, l’artista ha smarrito l’antico nesso vitale con le cose sacre, con la ricerca della verità e del senso del proprio destino. Per tutta la prima metà del Novecento si consuma questa lacerazione del tessuto conoscitivo dell’arte, che si arena in piccoli golfi e anfratti solitari, ove l’artista si compiace di lamentare la propria alienazione e il proprio scacco.
A parte i sussulti neorealistici del Dopoguerra, dagli anni ’60 fino ad oggi, l’arte celebra il suo definitivo divorzio con la propria originaria vocazione spirituale, aprendo una selva caotica di sperimentalismi e di soggettività cifrate che separano lo stesso artista dal proprio interlocutore Le arti narrative, poetiche e figurative non si fondano più sul tacito patto tra creatore e destinatario nel riferimento ad una comune visione della vita e del mondo. Ognuno è un universo a sé, che parla e racconta sempre se stesso, in un gergo noto a lui soltanto e la cui logica ci riesce sconosciuta e indecifrabile. Leggere diventa un’evasione o al più una simulazione di pessima qualità di ciò che è stata la lettura di un romanzo un tempo: a dominare è il gusto per le piccole storie, chiuse nella loro particolarità soffocante. Proliferano titoli enigmatici, anch’essi contingenti e particolaristici, centrati su storie minime di vita minima, in cui l’unico motore che sospinge i protagonisti è il sentimento, il desiderio dell’attimo, l’impulso. Ma che cosa possiamo trarre da questa costellazione deflagrata che è il cosiddetto post-moderno? Il pregio di un grande libro si misura sulla distanza tra un prima e un dopo, tra ciò che io sono prima di leggerlo e ciò che sono divenuto dopo averlo letto. Oggi non solo non vi è questo salutare cambiamento fatto di ricchezza e consapevolezza accresciute, ma vi è persino un’involuzione: dopo l’esperienza estetica mi ritrovo più smarrito e confuso di prima, diminuito nelle capacità logiche, espressive e spirituali. Poco a poco queste si addormentano, si riducono, si atrofizzano, rendendomi sempre più inetto a cercare e formulare domande e risposte sul mio essere e il mio fine in questo mondo.
Le neuroscienze hanno posto un ulteriore sigillo a questa epoca che ci ricorda il fasto decadente dell’arte alessandrina, priva di un centro, di una visione unitaria, di un riferimento superiore.
Si crea perché si è ammalati, si adopera un determinato stile perché il nostro cervello funziona in modo patologico. Tutto il nostro percorso di vita è medicalizzato e ridotto a pura funzione fisiologica. La stessa sorte subisce il nostro viaggio terreno, chiuso tra un inizio biologico e una fine biologica, dopo la quale non vi è più nulla. E si ha un bel dire che ciò che conta è la memoria che lasciamo di noi ai posteri. Essa non può consolare né aiutarmi a dare un senso alla vita. Ci vuole ben altro per questo!
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