Mons. Audo: «In Siria mancano le condizioni di sopravvivenza. Senza soluzione politica la situazione peggiorerà e il cristianesimo sparirà»

L’appello al mondo di un popolo divenuto «miserabile». Intervista al vescovo caldeo di Aleppo




Incontriamo Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo e presidente di Caritas Siria, nella canonica della cattedrale di San Giuseppe nel quartiere di Soulemaniye, alla fioca luce di cellule fotoelettriche alimentate da una batteria. L’eparchia caldea è suddivisa in 14 parrocchie, che prima della guerra servivano 30 mila battezzati e adesso probabilmente la metà. La città è priva di elettricità e di acqua corrente da settimane, la vita dei civili si fa sempre più dura. L’attitudine riflessiva, la calma quasi aristocratica del vescovo contrastano singolarmente con la situazione di precarietà di chiunque viva ad Aleppo.

Eccellenza, cosa significa essere pastori della Chiesa in un tempo come questo e in un luogo come questo?

Significa riconoscere che la cosa più importante è essere presente qui fisicamente. La gente vuole andarsene, non pensa ad altro, e il fatto che noi restiamo qui dediti alle nostre missioni pastorale e umanitaria li colpisce molto. Questo riguarda principalmente i miei fedeli caldei, ma anche gli altri cristiani e infine tutto il popolo di Aleppo. Essendo presidente di Caritas Siria, sono costretto a viaggiare molto, ma appena posso torno qui.

Come descriverebbe lo stato d’animo dei cristiani siriani, e lo stato della loro anima?

Lo stato d’animo dominante è la stanchezza, cresciuta anno dopo anno. All’inizio della crisi i siriani hanno mostrato una grande resistenza psicologica e umana, ma allora si pensava che la cosa sarebbe durata poco tempo. Ma il perdurare del conflitto e l’insicurezza che è diventata cronica hanno prodotto una grande stanchezza. Ogni giorno può cadere una bomba su di noi, e la consapevolezza di questo è stressante. L’altro fattore di sfinimento è il disagio materiale, l’impoverimento: i più ricchi se ne sono andati subito, la classe media si è impoverita, mentre i già poveri sono diventati miserabili. Oggi vengono meno le condizioni minimali per vivere: l’acqua, l’elettricità, i medicinali non ci sono. Dunque, tanti cristiani sono partiti per l’estero, oppure hanno cercato riparo sul litorale a Tartus o nella cosiddetta Valle dei cristiani. Del resto si deve sapere che dei 23 milioni di siriani ben 10 milioni sono profughi all’estero o sfollati in patria.

La Siria era nota per la positiva qualità della convivenza fra cristiani e musulmani. Che ne è di questo, dopo quattro anni di guerra civile nella quale l’islam politico ha avuto e ha un ruolo?

Purtroppo quella convivenza è entrata in crisi. I cristiani sono diventati timorosi e scettici. In questa città vivono i discendenti di armeni, siriaci e caldei, tutti gruppi che cento anni fa hanno conosciuto genocidi e persecuzioni. Oggi questi discendenti pensano che la storia si sta ripetendo, e questo è un pensiero che prima della crisi non esisteva. D’altra parte, continuo a essere testimone del rispetto di tanti musulmani per noi cristiani. Ieri sono uscito dalla mia residenza in abito talare vescovile per andare a porgere le condoglianze a una famiglia, un musulmano mi ha incrociato e si è irrigidito in un saluto militare: «Devo rispetto alla Vostra personalità», mi ha detto. Poi ho incontrato un gruppo di ragazze musulmane vestite a festa per la fine del Ramadan. Una di loro mi ha salutato dicendomi: «Che Dio ti protegga!».

Come si immagina il futuro della Siria e dei cristiani siriani? Che ne sarà di voi?

Sarà ciò che Dio vorrà per noi. Certe risposte non ce le ho. Tanti giovani mi chiedono: «Dov’è Dio? Perché tutta questa violenza e tutta questa ingiustizia contro la Siria?». Io stesso mi domando se questa non sia soprattutto qualcosa che mette alla prova la mia fede, che serve per la sua purificazione. All’inizio della crisi la virtù teologale che cercavo di coltivare in me era la speranza, quattro anni dopo non più: sono “tornato” alla fede, intesa come la virtù cristiana fondamentale da salvaguardare. Si tratta di accettare che Dio ha l’ultima parola e che noi non dobbiamo pretendere di avere la spiegazione per tutto. Tenete presente che in Siria prima della guerra c’erano circa 300 chiese aperte, adesso un centinaio circa sono distrutte o inagibili o inaccessibili.

Guardando agli aspetti più propriamente politici del conflitto, che cosa si può dire oggi? Quali percorsi bisogna intraprendere per la pace? Che giudizio rischierebbe sull’attualità politica?

Fin dall’inizio ho parlato di tre livelli del conflitto: locale, regionale e internazionale. A livello locale, cioè all’interno della Siria, ho fatto una distinzione ulteriore fra un livello etnico-religioso (che vede lo scontro fra sunniti e alawiti, fra arabi e curdi…); un livello politico istituzionale (da cinquant’anni la Siria è retta da un regime a partito unico di diritto o di fatto); un livello politico-economico, che include i problemi della corruzione diffusa, dei giovani che non trovano un impiego pur disponendo di diplomi e di una formazione qualificata, delle campagne siriane che odiano le città, della mentalità dei beduini e delle altre popolazioni organizzate in modo tribale che considerano normale la razzia e altre attività punite dal codice penale. Attualmente però sono convinto che il livello determinante della crisi è quello internazionale. C’è un disegno elaborato a livello internazionale che assegna a ogni paese e a ogni forza un ruolo in questa crisi, per realizzare un programma che sembra essere il seguente: balcanizzare il Medio Oriente, fare combattere i sunniti e gli sciiti fra di loro, vendere armi. Il Papa lo ha detto e ripetuto in varie occasioni: tanti parlano di pace, ma poi commerciano le armi che alimentano le guerre. Comunque, è chiaro che se non si interviene a livello politico la situazione peggiorerà sempre più, e fra gli esiti infausti ci sarà la scomparsa del cristianesimo dal Medio Oriente. Una perdita incommensurabile non solo per la Chiesa universale, ma per lo stesso Medio Oriente e per la stessa civiltà islamica in questa parte del mondo, per le società a maggioranza musulmana.

Cosa fa oggi Caritas Siria per portare sollievo alle persone sofferenti?

La Caritas lavora in grandi progetti fondati sulle capacità professionali dei suoi operatori e sui valori della Chiesa cattolica, applicando i valori della dottrina sociale cristiana e indirizzandosi ai bisogni di tutti, senza discriminazioni su base confessionale. I programmi operano secondo sei direttrici diverse. La prima è quella dei bisogni alimentari, per la soddisfazione dei quali abbiamo suddiviso la Siria in sei regioni (Damasco, Homs, Aleppo, il Sud, il Litorale e la Jazira); la seconda è quella della salute: forniamo medicinali, paghiamo ospedalizzazioni e interventi chirurgici; la terza è quella dell’educazione: aiutiamo 4 mila studenti con borse di studio, dalle scuole medie all’università; la quarta è il programma di aiuto per chi non riesce più a pagare l’affitto di casa per mancanza di reddito, e riguarda soprattutto anziani; la quinta è il nostro programma psico-sociale per aiutare giovani e giovanissimi a curare disturbi da stress post-traumatico; la sesta è la priorità alla condizione femminile, ai problemi e alle risorse della donna. Inoltre disponiamo di un Fondo di emergenza per le catastrofi, finanziato per 100 mila euro.

Per un vescovo non deve essere facile dedicarsi contemporaneamente ai bisogni pastorali della sua Chiesa e a questioni organizzative su scala nazionale.

Non lo è. Attualmente dedico l’80 per cento del mio tempo alle attività della Caritas, che mi portano a viaggiare sul territorio nazionale e all’estero per visitare i nostri partner, e solo il 20 per cento alla pastorale dei miei fedeli, che si sono ridotti a 15 mila circa a causa dell’emigrazione. Credo comunque che il nostro sia stato e continui a essere un buon lavoro di testimonianza cristiana attraverso la carità verso tutti, senza nessuna discriminazione confessionale.

di Rodolfo Casadei

Fonte: http://www.tempi.it

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