L’ancora della speranza




Recentemente Papa Francesco ha riflettuto sulla «speranza» cristiana che, assieme a «fede» e «carità», fa parte di quelle che generalmente sono indicate come «virtù teologali». In particolare, durante una delle meditazioni a Santa Marta (29 ottobre) e nella solennità di Ognissanti (1 novembre), il Santo Padre ha paragonato la speranza al simbolo dell’«ancora», secondo l’insegnamento di san Paolo: nella «speranza» – dice l’Apostolo delle genti – «noi abbiamo come un’ancora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell’interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore, essendo divenuto sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchìsedek» (Eb 6, 19-20).

L’immagina paolina è fortemente evocativa: non sul fondale del mare è ancorata la fragile nave della nostra vita, ma addirittura dentro il Santuario, oltre il velo del Tempio, nel «Sancta sanctorum», nell’«Àghia ton aghìon», nel «Qodesh haqodashim» – nel Santo dei santi, in Yhwh, in Dio. Lo scrittore Charles Péguy (1873-1914) aveva intuito che la speranza è una virtù peculiare. Mentre la fede «va da se» e così pure la carità «va da se», viceversa la speranza «non va da sé», poiché «sperare è difficile»; si può sperare solo dopo «aver ricevuto una grande grazia» (Charles Péguy, “Lui è qui”, Bur, 2009, pp. 288-289).

Virtù speciale, dunque. La «più umile delle tre», dice il Papa, perché «si nasconde nella vita». Quanto alle altre due virtù teologali, «la fede si vede, si sente, si sa cosa è» e similmente «la carità si fa, si sa cosa è». La speranza, invece, è più affine ad un «rischio» – ha spiegato – nel senso che «la speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio. Non è un’illusione. È quella che avevano gli israeliti», quando furono liberati dalla schiavitù egiziana. Essi, difatti, abbandonarono la sicurezza di avere almeno di che sfamarsi e coprirsi, ma intrapresero la rischiosissima attraversata del deserto, affidandosi alla Parola di Dio, nella speranza appunto di raggiungere la terra promessa.

Per questi motivi – dice Papa Francesco – «la speranza» è «un’ancora» e i primi cristiani la dipingevano appunto in questa forma. Un’ancora, beninteso, «fissata nella riva dell’aldilà», per cui la nostra vita è come un «camminare sulla corda verso quell’ancora». Non sarà però che la nostra ancora è fissa nel posto sbagliato? Non sarà forse che la nostra speranza è ancorata su di un fondale morto? C’è dunque il problema di chiedersi dove siamo ancorati: «Siamo ancorati proprio là, sulla riva di quell’oceano tanto lontano o siamo ancorati in una laguna artificiale che abbiamo fatto noi, con le nostre regole, i nostri comportamenti, i nostri orari […]»? «Siamo ancorati là dove tutto è comodo e sicuro? Questa non è la speranza», afferma il Santo Padre.

La speranza è piuttosto «una grazia da chiedere», che però richiede l’assenso della nostra volontà. Richiede cioè la ferma intenzione di una rinuncia alle sicurezze mondane e l’accettazione di muovere noi stessi verso una terra nuova, che lo Spirito intende consegnarci in perpetuo.

Sant’Agostino ha scritto che il Signore Gesù, nel versare il suo sangue sulla Croce, «ha trasformato la nostra speranza» poiché, pur essendo mortali, «possiamo alzare gli occhi e guardare la nostra immortalità futura», in quanto «abbiamo già fissato in terra l’ancora della speranza» (Commento alla prima lettera di S. Giovanni, n. 10).

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