La Regione deve pagare a papà Beppino 142 mila euro come risarcimento «per l’ostruzionismo», ma Maroni ha impugnato la sentenza al Consiglio di Stato

La vita non è un danno. La Lombardia si oppone alla logica del caso Englaro (e al Tar)




Il buon senso abita in Lombardia. La scelta della giunta regionale, formalizzata nel pomeriggio di lunedì 11 luglio, di impugnare al Consiglio di Stato la sentenza del Tar del 7 aprile sul caso Englaro, è saggia e in controtendenza. Mentre la Camera ha all’ordine del giorno in commissione Giustizia l’esame di proposte di legge sull’eutanasia, dopo non poche decisioni giudiziarie di sostanziale apertura nella stessa direzione (a cominciare proprio da quelle su Eluana), il Pirellone afferma a chiare lettere che non esiste il diritto a togliersi la vita, e ancora meno a procurare la morte ad altri, a prescindere da intenzioni più o meno caritatevoli. Di conseguenza, nessuna struttura sanitaria è legittimata ad assecondare la volontà soppressiva di una persona.

In aprile il Tar aveva condannato la Regione a pagare al padre della ragazza 142.000 euro a titolo di risarcimento «per l’ostruzionismo perpetrato nei confronti della volontà di Eluana»; secondo i giudici amministrativi la donna aveva diritto a morire in Lombardia, dove poteva esserle praticato il distacco del sondino naso-gastrico che la alimentava e idratava artificialmente, e invece morì a Udine il 9 febbraio 2009. Nei mesi precedenti la Regione, con Formigoni presidente, aveva precluso al personale sanitario l’interruzione di alimentazione e idratazione.

Tutti ricordano che Eluana Englaro non era sottoposta ad accanimento terapeutico, né era mantenuta in vita artificialmente: era una grave disabile, come purtroppo non pochi collocati in case di cura e in strutture di riabilitazione. Certo, erano artificiali le modalità di alimentazione: lo sono sempre per chi ha seri problemi di assimilazione, ma non per questo viene eliminato. Le suore che l’avevano assistita per anni testimoniano che intanto il sondino naso-gastrico non le era applicato in permanenza, bensì quando necessario; e poi che in lei era possibile cogliere qualche reazione alle loro sollecitazioni, per cui non si poteva in alcun modo parlare di stato vegetativo.

I princìpi scivolosi delle sentenze

I princìpi su cui si basano le sentenze – Cassazione e Corte costituzionale incluse – che hanno autorizzato il distacco del sondino sono due: il primo è la qualificazione di trattamento sanitario alla modalità artificiale di somministrazione di cibo e acqua; portato all’estremo, rischiano pure i neonati che non prendono il latte materno: il biberon è o non è una forma artificiale di assunzione? Il secondo è che la volontà di non restare in vita può essere desunta da qualsiasi fonte, perfino da una mezza frase pronunciata vent’anni prima: non si sa detta in che modo, a causa di quali suggestioni, e comunque in condizioni diverse da quelle della non autosufficienza.

La pronuncia del Tar Lombardia ha aggiunto qualcosa di più: non solo si può uccidere una persona perché gravemente disabile sulla base di un consenso remoto e presunto, affermando che dare cibo e acqua costituisce accanimento terapeutico; ma se i medici cui ci si rivolge non si prestano a togliere la vita, il sistema regionale nel quale essi sono incardinati ne risponde sul piano risarcitorio. Scrive il Tar: «Si è impedito quindi al ricorrente di dare seguito alla volontà della figlia di non continuare a vivere quello stato di incoscienza permanente, essendo stata accertata con le più volte citate pronunce giurisdizionali – rese sia in sede civile che amministrativa e passate in giudicato – l’incompatibilità di uno stato vegetativo con lo stile di vita e i convincimenti profondi riferibili alla persona, correlati ai fondamentali diritti di autodeterminazione e di rifiutare le cure».

Il di più è il capovolgimento di una prospettiva: in un ordinamento civile la lesione alla vita è fonte di danno. Per il Tar è fonte di danno lasciare in vita un essere umano. La Lombardia non si è rassegnata a questa logica. Attendiamo il Consiglio di Stato, ma nel frattempo cogliamo il segno di speranza lanciato dalla più importante istituzione regionale italiana, che non si è fatta condizionare dall’ideologicamente corretto. Non poco di questi tempi.

di Alfredo Mantovano

Fonte: http://www.tempi.it

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