La Pasqua di Umberto Saba




Vorrei rivolgervi il mio augurio per una Pasqua di letizia, pace e bellezza, attraverso la lirica del poeta triestino Umberto Saba (Trieste, 1883 – Gorizia, 1957) “Nella sera della domenica di Pasqua”: «Solo e pensoso dalla spiaggia i lenti
/ passi rivolgo alla casa lontana.
/ È la sera di Pasqua. Una campana/ piange dal borgo sui passati eventi./ L’aure son miti, son tranquilli i vènti
/ crepuscolari; una dolcezza arcana/
 piove dal ciel sulla progenie umana,
/ le passioni sue fa meno ardenti./ Obliando, io penso alle leggende
/ di Fausto, che a quest’ora era inseguito/ 
dall’avversario in forma di barbone./ E mi par di vederlo, sbigottito
/ fra i campi, dove ombrosa umida scende/ la notte, e lungi muore una canzone».

La poesia è un piccolo gioiello di impressionismo lirico che si scioglie, verso dopo verso, in un canto pasquale semplice e commosso. Nella vera poesia, ciascuna parola è sia frutto di una eterea e inafferrabile ispirazione che irrompe incontrollata dall’anima — come un oracolo suggerito da un nume —, sia l’esito di un vaglio attento, ponderato e accuratissimo. Dall’incontro tra il libero gioco della creatività e il lavoro ragionato e lucido sul linguaggio, nasce un tessuto lirico denso di simboli e allusioni. La parola poetica rivela, ma anche vela; essa è limpida, ma anche aureolata di profondi segreti, specie se ispirata da palpiti metafisici. Il retaggio di sensi che essa reca con sé costituisce un piccolo cosmo la cui vita è al contempo autonoma e corale, splendida di luce propria eppure tenacemente avvinta alle altre parole da legami nascosti e tutti da sciogliere.

Proviamo ad affidarci a ciascuna delle parole della poesia di Saba, a fare nostro il loro respiro e ad aprirci al respiro più vasto che le lega in un’architettura ben studiata, con le sue regole, le sue scansioni, le sue pause, le sue rime e le sue assonanze mai affidate al caso. La poesia infatti non è solo folgorante illuminazione, ma anche tecnica raffinata che punta a saldare forma e contenuto, scegliendo la partitura, la sequenza di suoni, ritmi e silenzi in relazione a ciò che vuole esprimere. L’obiettivo è un messaggio efficace che penetri in profondità anche con la forza dello stile.

La poesia di Saba descrive una sera di Pasqua: uno scenario semplice, evocato con pochi tocchi. È come se il poeta si stesse servendo di una cinepresa e ora la puntasse su piccoli scorci di paesaggio, ora sulle immediate impressioni del suo animo, che fin dalle prime parole appare sprofondato in una quiete quasi irreale. Leggendo la lirica e ascoltandone l’eco, si coglie in filigrana la melodia che la muove e la pervade, cantando con umanità e composta reverenza l’avvento di una stagione nuova, portata sulla terra dalla Pasqua. Una sorta di primavera, lieta, leggera, dolcissima, una primavera che rianima e colora le contrade di tutto il creato e che sgrava il mondo dai suoi pesi. Più che fede in senso stretto, con i corollari della dottrina e della tradizione, quella di Saba è l’intuizione di un poeta e di un uomo spirituale e sensibile, disponibile ai richiami dell’invisibile e della trascendenza. Il poeta non è un agnostico né un indifferente, ma un cuore caldo e coinvolto che si lascia ravvivare dai soffi dello Spirito.

È la sera di Pasqua. Il poeta è “solo e pensoso” mentre volge i suoi passi da una spiaggia alla “casa lontana”. L’esperienza spirituale si consuma nel silenzio e questo silenzio solitario è dimora di pensieri e meditazioni svolti interiormente mentre il poeta si allontana dalla spiaggia — la linea in cui il caos oscuro e vitale del mare si arresta cedendo il passo alla terraferma, regno della stabilità — e prende la via di casa — la propria dimora, il proprio luogo, la propria meta.

In questa sera che celebra il Risorto, “una campana piange dal borgo sui passati eventi”. Il dolore e la gioia, la morte e la vita, la tenebra e la luce si abbracciano strette nell’evento pasquale. Infatti, il pianto per la morte di Gesù ancora risuona nel mondo, ma diffondendosi in “aure miti”, sprigionate dalla resurrezione: il tono è elegiaco, venato di malinconica nostalgia e di grazia, di luce soffusa e di attesa. La Pasqua ha placato la natura, l’ha aspersa di pace e dolcezza, neppure un soffio di vento nell’aria, quel vento strano e lamentoso che a volte si leva al crepuscolo.

Questa dolcezza che “piove dal cielo” inonda di quiete l’universo, la natura e il cuore dell’uomo le cui passioni, al tocco di questa eterea mitezza diffusa ovunque, diventano meno grevi. Il giorno di Pasqua celebra il momento in cui, nella solitudine e nella meditazione, l’uomo si allontana dal mare, simbolo in questo caso dei sotterranei tumulti dell’inconscio, per volgersi verso la sua vera meta, la sua “casa”. Questo giorno sorge con la sua forza liberatrice su tutte le cose e le trascina a sé, per alleggerirle, riconciliarle e trasformarle. Il cosmo diventa bello e luminoso, il creato e l’uomo sono in pace, ogni presenza, ogni suono sono ovattati, l’universo canta l’amicizia e l’amore tra Dio e le sue creature.

Ma un’ombra rimane, acquattata in un angolo, pronta ad uscire e ad oscurare il nostro cammino. È il peccato umano, che ci rende capaci di male e di rovina, quella colpa delle origini che Saba evoca nella seconda parte della sua poesia con la figura di Faust inseguito da un cane, simbolo del maligno. Il personaggio demoniaco del grande poema di Goethe è incarnazione compiuta della caduta. L’uomo cade perché ha voluto ergersi ad arbitro del bene e del male, stabilire da solo che cosa è bene e che cosa è male, indifferente al piano prestabilito da Dio. Faust con la sua sete di conoscenza infatti sogna di farsi artefice di una nuova creazione rubando a Dio le leggi segrete dell’universo e usandole per ricreare in laboratorio la stessa vita umana — l’homunculus prigioniero di un alambicco nell’antro di Faust e creato solo per essere distrutto. Posseduto dalla stessa audacia ribelle di Prometeo e dal sogno perverso di Lucifero, Faust è l’uomo inquieto, cercatore e provocatore, insaziabile nella sua fame di conquista e di possesso, invidioso delle prerogative divine, ossessionato dall’urgenza di conoscere tutto per poter disporre liberamente di tutto. La Pasqua è anche l’ora in cui lo spettro della notte è più visibile tanta è la luce che vibra nell’aria. Noi siamo salvati, ma le tenebre del mondo, come rivela tragicamente la storia umana, rimangono sullo sfondo di questa scena inondata di splendore.

Saba conclude il suo canto pasquale con l’immagine di Faust fuggitivo e perseguitato, nella “ombrosa umida” sera mentre “lungi muore una canzone”. La vita, che aleggiava come una brezza soave nel quadretto dei primi versi, si stempera poco a poco in una sorta di crepuscolo in cui l’uomo vaga inquieto nei campi della sua esistenza, fino a incupirsi al sopraggiungere di quel segnale, come di lutto, della canzone che muore in lontananza. La Pasqua è luce, gioia, rinascita, sollievo, ci suggerisce il nostro poeta in questi versi dal ritmo lento e incantatorio. Ma è una “sera di Pasqua”, non un’alba, è un crepuscolo, quell’ora in cui gli uomini dopo la gioia della festa, stanchi e sazi, ritornano alla loro esistenza feriale, con i suoi fardelli e le sue ombre. Ora l’uomo sa che è stato glorificato e che questa elevazione, incarnata in quell’aura mite e in quel riposo dell’universo cantati dal poeta nei primi versi, è dono pasquale ma anche frutto della libertà: il dono divino della mappa con le vie da seguire e le vie da evitare per avere la vita e la libertà umana di scegliere ove volgere il passo, se verso i gorghi della morte o verso la luce della Resurrezione.

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