C’è molta Germania nell’ultimo libro-intervista di Peter Seewald a Benedetto XVI: dagli anni d’infanzia felici nell’amata Baviera alla vita universitaria, gli storici come gli appassionati di cattolicesimo tedesco troveranno qui pane per i loro denti. Se però dovessimo dire qual è il motivo dominante di queste conversazioni opteremmo senz’altro per la gioia, la gioia cristiana, tema che a parere nostro è stato anche un tratto distintivo del suo pontificato. Il leitmotiv torna continuamente: il cattolicesimo bavarese viene descritto come un cristianesimo gioioso, l’inizio del cammino sacerdotale e accademico come una strada appassionante e gioiosa, la crisi della fede nella modernità come un’assenza della gioia della fede rispetto alle vicende della storia. Per qualcuno forse sarà una sorpresa ma se si vanno a rivedere con attenzione i passaggi salienti del suo pontificato si vedrà che le riflessioni sulla gioia cristiana sono state pressoché costanti, dall’inizio alla fine, e la parola una delle più citate del suo vocabolario personale, che non era certo privo di varietà semantiche. Viene anzi in mente che persino in occasioni in cui l’ex Prefetto della dottrina era direttamente chiamato in causa l’approccio di Papa Ratzinger non cambiava poi di molto. Così, davanti al Superiore Generale di uno storico Ordine in crisi di vocazioni il Pontefice una volta non esordì riferendosi agli statuti fondativi o all’osservanza dei commi del diritto canonico ma gli rivolse piuttosto la domanda: “Dov’è la gioia?”. Ci si potrebbe chiedere quindi perché e se mai la cosa abbia un significato particolare.
Secondo noi la risposta è sì, e Ratzinger-Benedetto XVI resti intimamente convinto che la gioia sia la dimostrazione spontanea del vero Cristianesimo e perciò stesso anche delle sue verità fondamentali. In effetti, questa era anche l’opinione di non pochi apologeti dell’epoca contemporanea ma per una serie di motivi il tema non è poi mai entrato nel dibattito intra-ecclesiale. Invece a sentire qui Ratzinger la testimonianza della gioia resta decisiva se un cristiano vuole rendere davvero ragione della plausibilità della propria fede e forse mai come oggi l’osservazione si dimostra densa di significato. Non è tanto una risposta alla celebre critica di Nietzsche che non credeva alla proposta cristiana anche perché vedeva i fedeli uscire dalla Messa ogni volta con le facce tristi, ma è proprio un’osservazione di fondo sul senso dell’identità cristiana. Se Cristo è risorto e la vita eterna con Lui è il nostro destino come si può essere tristi? Se come dice il Vangelo ci ha voluto come suoi apostoli perché la nostra gioia sia piena come potremmo non esserlo? Se lo Spirito Santo abita in noi e noi siamo sue creature come potremmo non avere la gioia che è uno dei suoi doni specifici? E’ interessante notare come da queste osservazioni scaturisca anche il giudizio critico di Ratzinger sia verso un certo tipo di pietà, piuttosto freddo e severo, dell’Ottocento in Germania e sia verso un simile modo di concepire la sequela cristiana prima del Concilio. D’altra parte, è senz’altro vero che non pochi tra i movimenti e le nuove realtà ecclesiali degli ultimi anni hanno rimesso decisamente al centro della presenza cristiana proprio la testimonianza della gioia, chi facendone una caratteristica del proprio carisma particolare, chi addirittura scegliendola come quarto voto evangelico, dopo quelli di castità, povertà ed obbedienza: questo perché la gioia diventi sia forma che sostanza della missione. Ora, perché sia sostanza lo sappiamo: il cristiano annuncia la Buona Novella di Cristo e dunque un messaggio di liberazione, dalla morte come dal peccato, su questo siamo d’accordo tutti. Ma il punto decisivo per Ratzinger sembra essere l’altro, e cioè che la gioia è anche forma dell’annuncio e anche questo aspetto non è meno importante. Se credo veramente in quel che dico dovrei essere quasi – per citare un’altra espressione celebre di un apologeta – ‘posseduto dalla gioia’. Se questo invece non avviene è indice che c’è qualcosa che non va, o in me, o nella fede che professo, ed è allora forse che si scopre come mai la gioia sia realmente, e non stranamente, un tema da Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede. Ci si può chiedere infatti se l’avanzata della secolarizzazione in fondo non sia anche una conseguenza del venir meno della gioia in alcune aree, comunità, o gruppi del popolo cristiano. Paradossalmente qui gli estremi progressisti e tradizionalisti s’incontrano, finendo per fare il gioco degli avversari: gli uni con la rabbia verso la Chiesa istituzionale che non si aggiorna e non sarebbe mai al passo con i tempi, gli altri con l’astio e il livore verso ogni fatto che appare inusuale, nuovo o inedito. Ma chi vorrebbe mai vivere in una famiglia così? Chi mai vorrebbe stare in una comunità dove qualcuno punta sempre il dito contro qualcun altro e le condanne e le critiche sovrastano continuamente le buone parole e le esortazioni? Sullo sfondo, come si nota, c’è ancora l’ansia missionaria del predicatore che non vuole che nessuno si perda e si confronta continuamente sulla plausibilità del Cristianesimo per la vita comune di ogni uomo e di tutti gli uomini – perché la religio vera o è per tutti oppure non è vera – e sulle sfide del nuovo paganesimo moderno, per dirla con le sue parole. Naturalmente Ratzinger-Benedetto XVI non è stato solo questo, ma secondo noi qui forse più che altrove si vede come in lui il Cristianesimo s’incontri con la vita, le speranze (tanto ci sarebbe da dire anche su questa virtù a cui dedicò l’enciclica in assoluto più densa del suo magistero), i dolori e, appunto, le gioie degli uomini del nostro tempo. E come tale, forse, dopotutto, anche se non lo dice, vorrebbe essere ricordato: un cristiano umile, laborioso, coerente, e, quindi, un testimone credente della gioia (“siamo servi della vostra gioia”, tra l’altro, fu il motto scelto per la sua prima Messa).
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