Tutto quello che leggiamo e studiamo nei libri di scuola — e non soltanto — è frutto di una ricerca e di una selezione delle fonti scritte e dei reperti archeologici scoperti nel corso dei secoli. Questo tipo di ricerca ha subito un’accelerazione e una dilatazione fortissime a partire dalla fine dell”800 ad oggi, parallelamente allo sviluppo delle tecniche scientifiche di esame di fonti e reperti.
Il IV Seminario di Archeologia del sacro “Le figure del sacro: divinità, ministri, devoti”, tenutosi presso la Biblioteca Statale e il Dipartimento di Studi umanistici di Trieste venerdì 2 e sabato 3 ottobre, si è avvalso del contributo di numerosi studiosi, docenti e ricercatori impegnati a illustrare sia i problemi di metodo dell’archeologia sia le sue conquiste in determinati siti di scavo e in alcuni ambiti antichi del sacro ancora da approfondire e illuminare (culti, riti e oggetti rituali, divinità ancora misteriose).
Logicamente questo tipo di studi e di ricerche, come è stato illustrato nell’intervento di Sabina Crippa (Università Ca’ Foscari di Venezia) che ha aperto il Seminario, devono costantemente confrontarsi con tutti i limiti legati al trascorrere del tempo. Tempo che logora, livella, cancella e distrugge. Poiché tutte le figure materiali del sacro, siano esse statue, templi e oggetti rituali, rivestono una funzione cultuale ben precisa, riesce difficile, a volte impossibile a causa dell’usura operata dal tempo su di esse, conoscere bene le forme del sacro e le loro funzioni nelle civiltà passate. La loro collocazione, il tipo di supporto, gli abiti e le chiome posticce che adornavano la statua di una divinità, il colore del materiale e il rapporto con ministri e devoti, tutto questo esprimeva un determinato tipo di religiosità. Ma poiché il tempo ha lasciato solo delle tracce di tutto questo sistema di interrelazioni e di significati, è impossibile per l’archeologia avere una conoscenza certa e del tutto esauriente di questi scenari religiosi del passato. Ad esempio, nel mondo egizio le statue delle divinità erano protette dentro santuari accessibili solo ai sacerdoti. Questa collocazione rinvia al carattere misterico e oscuro del divino mai del tutto conoscibile. Tuttavia queste stesse statue venivano portate in mezzo ai devoti durante le processioni rituali a significare un legame con la comunità. Il fatto che rimanessero “velate” chiarisce che comunque, anche in mezzo ai fedeli, le divinità rimanevano nascoste e si lasciavano conoscere solo attraverso una cortina impenetrabile.
Il destino dell’archeologia, che raccoglie, custodisce e studia tutto ciò che si è salvato dal naufragio del tempo trascorso ed è approdato sulle sponde del momento presente — come tanti relitti scomposti e frammenti di oggetti mutili che non sempre si possono ricostruire —, incarna bene il contributo ma anche i limiti con i quali ogni forma di sapere umano deve confrontarsi. Rispetto al Sapere, le miriadi di saperi che vanno via via aumentando di numero, di complessità e di relatività — l’estensione quantitativa rispetto all’intensità qualitativa — procedono a tentoni nei tunnel bui del passato e sono costretti a ricominciare ogni volta da capo, ad aggiornare giorno per giorno e spesso anche a riscrivere le proprie conclusioni. Quello che studiamo oggi rischia di non essere più valido tra qualche anno o forse tra qualche mese, non appena apparirà sulle sponde del tempo qualche nuovo relitto del passato che obbligherà studiosi e scienziati delle più diverse discipline a rivedere i loro saperi e a riscrivere le loro enciclopedie. Via via che emergono nuove prove e reperti, i saperi mutano. Queste scienze umane sono sempre in sfida con se stesse, con il proprio innato limite, con la propria fallibilità. Hanno per questo bisogno di dedizione, pazienza, passione e grande, grande cedevolezza e disponibilità a rimettersi continuamente in gioco, cancellando pagine e pagine fino a un giorno prima ritenute definitive e intoccabili.
Che cosa rimane allora dell’Archeologia del Sacro, tema centrale del Seminario? Tanti piccoli mondi in continua mutazione, tenuti in vita e alimentati da quelle labili e opache tracce che sono i reperti, soprattutto le epigrafi. Come ha illustrato Giovannella Cresci Marrone (Università Ca’ Foscari di Venezia) nel suo intervento “Divinità, ministri e devoti nella documentazione epigrafica”, il carattere scarno e non sempre chiaro delle iscrizioni determina informazioni altrettanto scarne, e variamente leggibili, sulle modalità del rito e sulle figure che lo animano, quali divinità, ministri e devoti. E giustamente la relatrice ha osservato che la conoscenza deducibile dalle epigrafi è solo la classica punta dell’iceberg, ragione per cui il campo di studio va lasciato sempre aperto. Gli stessi limiti condizionano anche il linguaggio iconografico, argomento della relazione di Federica Fontana (Università degli Studi di Trieste): poiché la “materialità” delle figure concrete del sacro, come ad esempio le statue di divinità, arrivano a noi consumate e corrose del tempo, ci vengono a mancare tutti quei dettagli necessari a definire le passate esperienze del sacro nella loro interezza. Perfino l’attribuzione di una precisa identità divina alle statue, riesce impresa ardua. Così una scultura che per alcuni rappresenta Apollo, per altri rappresenta Afrodite dal momento che ci sono dei particolari che rendono plausibili entrambe le attribuzioni.
A questo punto, viene spontaneo ma anche doveroso chiederci: ma di quali cose allora possiamo avere una conoscenza e un’esperienza certe e immutabili, che ci facciano da guida lungo il cammino? Possono questi pallidi lumi che lottano nella tenebra contro i venti tempestosi del tempo rischiarare la nostra via? E di cosa è fatta la nostra cultura e il nostro sapere se tutto può essere continuamente rimesso in discussione e rovesciato perfino nel suo opposto? Allora più che di Archeologia del sacro, sarebbe giusto parlare di archeologia di segni del sacro. Segni elusivi ed incerti, da interrogare senza tregua, in un percorso infinito di letture e riletture che stratificano la conoscenza in un palinsesto sempre in fuga davanti alla nostra indomata sete di “una” Verità.
È importante essere consapevoli dei limiti di questi saperi e soprattutto avere la capacità di discernere tra revisioni necessarie e accreditate e boutade dell’ultimo momento che spacciano per “scienza” ipotesi infondate e nuove forme di superstizione grossolana mascherate di logica e modernità. Immersi in un mondo frantumato, che la marea del tempo modella e rimodella ogni giorno in modo nuovo, come le onde che mutano la spiaggia deponendovi ora un relitto ora un altro, noi uomini sentiamo sempre più forte l’esigenza di una “pagina” chiara e scritta bene che non muti il suo messaggio. Una pagina “assoluta”, che il tempo non possa toccare e trasformare, una pagina che abbia in sé tutto il rumore degli oceani profondi ove germinano e vivono i significati autentici del nostro essere uomini. Se ci fermassimo ai “saperi” le nostre giornate volerebbero via in un ripetitivo lavoro di spigolatura delle incerte orme lasciate dai fantasmi e dalle ombre delle cose che un tempo furono e ora non ci sono più. Delle cose che appaiono e non sono. Tutto ciò che si vede con gli occhi del corpo è solo l’involucro che gli occhi dello spirito sono chiamati a svolgere affinché affiori l’essenza di tutto. Il Sapere, il nostro Sapere svelato da Cristo uomo e Dio, sgorga da questo volto celato dalle mille maschere del mondo.
E se i saperi sono tanti piccoli sentieri che percorrono i giardini della vita terrena, il Sapere cristiano è la grande strada che delimita il Giardino delle origini. Da qui vengono parole certe, conoscenze eterne e profonde, promesse che rendono sicura il passo e lieve il vivere già qui e adesso. Oggi l’uomo preferisce perdersi in tante piccole esplorazioni di microcosmi polverizzati e volatili e quasi teme il vero grande viaggio che porta alla terra senza tramonto. Coltivando la viziata passione del dettaglio superfluo ma erudito e della suggestione peregrina — inclinazione tipica dei tempi di decadenza che fanno ben meritare alla cultura e all’arte del nostro tempo l’epiteto di neo-ellenismo alessandrino —, l’intellettuale diviene un uomo colto, preparato e al passo con i tempi. Uno specialista oppure un raffinato eclettico, che può ben cantare con il poeta francese Paul Verlaine (1844-1896): «Sono l’Impero alla fine della decadenza / che guarda passare i grandi Barbari Bianchi / componendo acrostici indolenti dove danza / il languore del sole» (“Languore”, in “Allora e ora”). E mentre si crogiola nel suo piccolo deflagrato sapere, questo nuovo alfiere della cultura quasi mai si accorge della malattia che lo affligge e lo dissangua: una forma particolare di ignoranza e di analfabetismo che colpiscono la mente, lo spirito e il cuore. Senza la Verità, le verità dei saperi mondani, tra i quali anche l’archeologia così fallibile e labile nelle sue conquiste simili al salvataggio da un naufragio senza fine, non portano da nessuna parte. Solo innestate in Essa, danno frutti. «Chi non raccoglie con me disperde» (Lc 11, 23): è nel nome di queste parole, che molti perfino si vergognano di fare apertamente proprie per timore di riuscire impopolare, che ogni sapere dovrebbe camminare ed agire. Un viatico, un’invocazione, una dichiarazione di fedeltà, l’egida d’oro sotto cui porre le nostre fatiche e i nostri impegni, anche quelli più fallibili e limitati, per avere la forza di costruire e ricostruire ogni giorno i nostri saperi su un fondamento saldo, come uno scultore che modella e rimodella la sua statua su un basamento solido che non muta e non vacilla.
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