Il tramonto di Vienna




Più volte in questo spazio ci siamo soffermati sulle attrattive di Vienna e su quello che questa particolarissima città storicamente evoca e rappresenta, dal punto di vista cattolico e non. Da qualche tempo, però, osserviamo che quello che arriva da oltre frontiera della (un tempo gioiosa) vita viennese pare un riflesso sempre più triste e disperato della decadente civiltà mitteleuropea. L’ultima della serie ha per oggetto il glorioso Burgtheater, il leggendario teatro di corte fondato nientemeno che dall’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, oggi al numero 2 della Karl Lueger Ring e che nel corso della sua storia ha ospitato – tra gli altri – diverse opere-prime di un ragazzo prodigio che al piano prometteva bene: si chiamava, pensate un po’, Wolfgang Amadeus Mozart. Per dire il livello. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Fin  troppa. Già negli anni Novanta, con la direzione di Claus Peymann, il teatro aveva suscitato scalpore iniziando ad ospitare opere avanguardistiche (che è una parolona edulcorata per dire “cose astruse che nessuno capisce”) di aperta rottura con la tradizione drammaturgica locale. Per un pubblico abituato fin troppo bene (Mozart a parte, il repertorio classico andava da autori come Grillparzer a Hofmannsthal) era già uno scossone non da poco. Ora, però, con il suo successore Klaus Bachler, la situazione è ulteriormente peggiorata, a testimonianza che effettivamente – e non tanto per dire – al peggio non c’è mai fine. Che cosa ti hanno combinato infatti stavolta alla Burg, come semplicemente la chiamano i viennesi? Tanto per andare di avanguardia in avanguardia hanno concesso il palco che fu di Mozart a…Romeo Castellucci. E chi è mai questo tizio? Direte voi. Infatti non è nessuno e nessuno sapeva che cosa facesse nella vita fino a quando ha pensato bene di scrivere un’‘opera’ (virgolette d’obbligo in questo caso) con un titolo altisonante e vagamente sapienziale: “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”. Al che uno si aspetterebbe chissàchecosa. Esegesi biblica, altissima teologia, metafisica, un po’ di sana filosofia fondamentale, che ne so. Invece la piéce consiste ‘semplicemente’ (si fa per dire) nella dissacrazione di un celebre quadro a tema religioso: il Salvator Mundi (noto anche come Cristo benedicente) di Antonello da Messina. Sul palcoscenico infatti viene riprodotta una copia ingrandita del dipinto a olio conservato oggi alla National Gallery di Londra che viene prima insozzata con delle vernici (che nella storia rappresentata sarebbero poi a tutti gli effetti degli escrementi) e quindi presa ripetutamente a sassate.

Ora, se voi foste invitati una sera al Burgtheater per una rappresentazione a sorpresa e vi trovaste davanti una roba del genere come reagireste? Ovviamente con indignazione e sgomento, il che è proprio quello che è successo a Vienna, come era già accaduto prima in altre città. Il bello invece è che Castellucci (il quale non si capisce se ci fa o ci è) si dice ‘sorpreso’ e ‘stupito’ dalle contestazioni del pubblico. Che, a suo dire, non si aspettava. E che, udite udite, manifestando contro la rappresentazione sarebbe persino integralista. Strano eh! Uno fa uno spettacolo dove gli attori scagliano pietre e insulti a raffica verso un’immagine storica dell’arte sacra cristiana e la gente si lamenta pure! Ma dove siamo arrivati! Non si comprende più l’arte! Si fermano all’apparenza questi plebei. Poveri ignoranti. Non comprendono la profondità del grande sforzo drammaturgico prodotto dal fine regista a livello di meta-testo!

Lontano dalle battute amare, la triste vicenda rivela a suo modo tutta la pochezza della cosiddetta cultura alta (alta?) dei giorni nostri, forse l’unica cosa allo stato attuale che accomuni realmente l’Europa da Lisbona a San Pietroburgo. Certamente la storia del teatro europeo, soprattutto la storia moderna, ha visto affermarsi più volte opere dissacranti e scandalose, da parte degli ‘artisti’ più diversi, spesso in luoghi altamente simbolici e persino più evocativi. Quello che però è accaduto a Vienna nei giorni scorsi segna forse un passo ulteriore e più inquietante perché oltre al gusto rivoluzionario dello scandalo per lo scandalo qui c’è anche la consumazione pubblica dell’apostasia di una civiltà che si consuma non a caso collettivamente: tutti coloro che salgono sul palcoscenico sono infatti invitati a compiere il medesimo gesto dissacrante verso il Salvator Mundi. Non è più l’isteria o la follia di un personaggio artistico, o di fantasia, da interpretare poi criticamente per un qualsivoglia dibattito critico ma un atto culturale pubblico, persino politico forse, in senso ampio, che vuole tagliare definitivamente quelle radici cristiane sulle quali l’Europa è cresciuta, per citare il Beato Giovanni Paolo II. Si è detto in effetti, e si continua a dire, giustamente peraltro, che le radici cristiane sono anche al centro della nostra cultura figurativa e del modo in cui per secoli l’Occidente ha concepito la sua identità. E’ in questo senso che il laicissimo Benedetto Croce, criticabile per molti aspetti, poteva dire il suo: “non possiamo non dirci cristiani”. Essendo intellettualmente onesto Croce, che apparteneva in pieno alla tradizione europea, pur con tutti i suoi ‘ma’ e ‘però’, non poteva negare l’evidenza di un dato oggettivo. Castellucci, che non ha nulla a che spartire con Croce, come il direttore Bachler, gli attori che si prestano a queste operazioni, il pubblico che applaude (perché c’è anche chi applaude) sono inseriti invece in un’altra prospettiva, radicalmente diversa e assolutamente inedita, che non sarebbe errato definire cristianofobica perché l’attacco frontale non è a un portato o a una conseguenza, civile o sociale che sia, della fede ma al nucleo stesso della fede: l’immagine di Gesù di Nazaret in quanto tale rappresentata qui e ora davanti al pubblico. Ecco, ci permettiamo di dire che spacciare questa violenza becera per arte, magari avanguardistica, e poi stupirsi delle reazioni indignate di chi ancora un minimo di buon senso ce l’ha, segna un punto di volgarità e di indecenza a cui, finora, non eravamo mai arrivati. Ma si vede che c’è sempre da imparare. Povera Europa.

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