Siano benedetti gli anniversari: anche in una delle epoche più smemorate della storia, con la loro cadenza periodica continuano inesorabilmente a ricordarci chi siamo, da dove proveniamo e qual’è il nostro orizzonte di riferimento. L’ultimo di un certo rilievo, per noi mitteleuropei, è stato celebrato in Vaticano, nel luogo più ‘autenticamente’ tedesco vicino alla Basilica più celebre del mondo: ovvero la chiesa di Santa Maria della Pietà all’interno del Campo Santo Teutonico, da decenni il cuore germanico della vita vaticana. E’ infatti proprio lì che negli scorsi giorni cardinali e ambasciatori di diversi Paesi centro-europei si sono dati appuntamento per commemorare ufficialmente il 660° anniversario dell’incoronazione di Carlo IV di Praga (1316-1378) come Imperatore del Sacro Romano Impero (avvenuta il 5 aprile 1355). L’iniziativa – una veglia di preghiera per l’Europa promossa dall’ambasciata della Repubblica ceca presso la Santa Sede – è giunta infatti in un momento quantomai opportuno, in cui tra la crisi economica che non si arresta e quella politico-istituzionale sempre presente dietro l’angolo, il tema delle radici spirituali del Continente sembrava essere stato ormai del tutto accantonato dalle classi dirigenti. Invece, al contrario, a nostro avviso è proprio coltivando e trasmettendo la memoria di queste grandi figure della storia europea che il glorioso passato che ci precede – e di cui comunque siamo eredi – potrebbe parlarci ancora. Carlo IV fu infatti a tutto tondo uno straordinario uomo di Stato, come lo definiremmo oggi: prima Re e poi Imperatore, come sovrano assunsè in sé una serie di cariche politiche, titoli governativi e onoreficenze varie che a citarli tutti non basterebbe questa pagina. Eppure, non fu solo questo, ma anche un uomo di sincera fede e autentica vita di preghiera, particolarmente devoto di San Venceslao (907-935), ad esempio, il duca di Boemia, oggi patrono della Repubblica Ceca, grande evangelizzatore di quelle terre assassinato proprio dai pagani che gli si opponevano, e sotto il cui nome fu battezzato. Anzi, fu in definitiva questo costante riferimento alla fede a ispirare la sua convinta politica di unità e coesione spirituale fra i diversi popoli (che emerge in maniera trasparente anche dalla sua biografia: lui stesso, che era figlio di Giovanni di Lussemburgo, trascorse però l’infanzia in Francia – dove fece gli studi – e seguì più tardi il padre nel tentativo d’insediarsi in Italia, arrivando a parlare correntemente cinque lingue). In secondo luogo, certamente, fu poi importante la collaborazione con l’autorità ecclesiale, come ha ricordato nell’occasione il Cardinale Miroslav Vlk, arcivescovo emerito di Praga e guida del popolo ceco nel difficile passaggio tra la la fine improvvisa del regime comunista e la riacquisita libertà: in un periodo di grandi sconvolgimenti anche intraecclesiali, che sarebbero scoppiati di lì a poco con il cosiddetto ‘scisma d’Occidente’, l’Imperatore rimase sempre fedele a quello che aveva sempre creduto, subendo per questo anche non poche critiche e attacchi dai contemporanei.
Alla luce di tutto ciò, troviamo che oggi la sua figura potrebbe insegnare molto: tanto dal punto di vista della comprensione del passato del popolo ceco – attualmente uno dei più secolarizzati dell’Europa – quanto dalla prospettiva della memoria culturale del Continente, che a Carlo, a partire dalla costruzione della splendida Cattedrale gotica di San Vito a Praga fino all’istituzione della prima università dell’Europa centrale (sempre a Praga, nel 1348), deve – anche solo visibilmente – non poco. La sua parabola storica, poi, ci riporta a un tempo in cui l’Europa si concepiva ancora con un cuor solo e un’anima sola, mostrandoci come la protestantizzazione che noi oggi associamo a certe aree come un dato naturale in realtà non sia altro che un tardo, a volte, tardissimo innesto nel complesso degli oltre due millenni di storia cristiana: qualcosa che ammalati di ‘presentismo’ e attualità come siamo facciamo sempre più fatica a capire. E’ in queste occasioni che torna alla mente la celebre battuta di Goethe che, non certo apologeticamente, una volta ebbe a sentenziare che “la lingua materna dell’Europa è il Cristianesimo”. Quando lo disse era Ottocento inoltrato, il secolo per eccellenza delle grandi rivoluzioni nazionaliste e in gran parte anticlericali ma, per quanto inoltrato fosse, nemmeno lui poteva fare a meno di notare un fatto storico evidentemente cristallino come quello. Più tardi, mutatis mutandis, gli farà eco Thomas Mann, pure solitamente piuttosto ostile ad apprezzamenti cattolico-romani. Non dovrebbero essere solo citazioni appanaggio di accademici o dotti studiosi: se si vuole veramente far dialogare le culture, come talora si sostiene, bisognerebbe tornare ad ascoltare sul serio chi un pezzo di strada a suo tempo l’aveva già battuto, nello spirito e nel pensiero, oltre che nella geografia, dall’alto della cattedra pubblicamente riconosciuta della sua autorevolezza. E’ principalmente in questo senso – e da questa prospettiva – che Praga e Roma, dall’epopea di Carlo IV in poi, nonostante ripetuti scetticismi, rivalità, incomprensioni e chi più ne ha più ne metta, non appaiono poi così lontane.
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