Testo della relazione del Cardinale Angelo Bagnasco al convegno dei Vescovi europei a conclusione dell'Anno della Fede, tenutosi a Trieste dal 4 al 6 novembre 2013 (Foto La Bella).

Il rapporto tra fede e carità




[VEDI ANCHE LA VIDEOINTERVISTA AL CARDINALE BAGNASCO DI FRANCESCO LA BELLA]

  La fede cresce quando è vissuta

come un’esperienza di amore ricevuto:

il rapporto tra fede e carità

Cardinale Angelo Bagnasco

Trieste, 4-6 Novembre 2013

 

Fede e carità sono unite tra loro da un nesso inscindibile: ce lo testimoniano la rivelazione biblica, l’insegnamento della Chiesa e la nostra stessa esperienza. Esse si richiamano a vicenda, tanto da essere espressione e completamento l’una dell’altra. A inizio del provvidenziale incontro di questi giorni, che ci vede radunati nell’ascolto di ciò che lo Spirito vuole dire oggi alle Chiese, meditiamo insieme sul legame tra la fede e la carità, per comprendere meglio il modo in cui il Popolo di Dio, in cammino nella storia, debba percorrere queste due vie fondamentali della vocazione cristiana.

Siamo collocati al centro dell’evento cristiano e del mistero stesso di Dio, che è amore e verità, senza che possiamo coglierne perfettamente la profondità e le implicazioni. Ne sappiamo parlare solo in modo imperfetto, consapevoli del carattere apofatico di ogni ragionamento teologico, raccontando ciò che abbiamo compreso della bellezza e dell’immensità di un Dio che si rivela e pure si nasconde. Ne parliamo dunque con timore, quell’atteggiamento interiore con cui la Sacra Scrittura suggerisce di accostarsi a Dio e che deve caratterizzare ogni discorso su di lui. è un timore che non ha il suo equivalente nella paura, ma piuttosto nello stupore. Esso nasce dalla consapevolezza del dono che inesorabilmente ci supera e ci sovrasta.

Tra i molteplici aspetti che la relazione fede-carità ci ispira, vorrei richiamarne tre, che ci servano da stimolo per la nostra azione pastorale: anzitutto il carattere responsoriale della fede, quale risposta a Dio che si rivela e fa alleanza con l’uomo; poi l’inseparabile legame della fede con la carità, che ne è l’espressione compiuta; da ultimo, la valenza rivelativa della carità, che della fede è segno ed efficace annuncio.

 

La fede come risposta a Dio che si rivela

La fede è dono di Dio, è virtù soprannaturale infusa per opera dello Spirito, che l’uomo deve accogliere e fare propria. Essa ha carattere responsoriale, perché non è un’iniziativa umana, ma la risposta dell’uomo a Dio che lo chiama. È la dinamica vissuta da Abramo, nostro padre nella fede, che ode la voce di Dio e gli obbedisce; da Mosé, a cui Dio dal roveto svela la sua compassione per il popolo e al quale chiede di farsi suo portavoce; dai profeti, che interpella facendone i suoi araldi. Sempre la fede è originata dalla chiamata divina e mai dall’iniziativa umana.

Gli uomini di oggi spesso non colgono questo ordine e lo invertono, pensando che Dio sia oggetto della loro scelta, invece che sentirsi essi oggetto della sua chiamata gratuita e personale. è così che la fede, che è seconda, viene concepita come prima, ed è pensata come il diritto di scegliere Dio, o “il” dio che più si confà alle proprie esigenze. È un dio da supermercato,[1] secondo l’efficace immagine di un documento del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, perché è oggetto dell’elezione dell’uomo che, preferendo una religione tra le varie a sua disposizione, decide di aderirvi. Questo però è il processo opposto a quello della fede biblica, perché fa di Dio la risposta alla domanda umana; la fede, invece, sebbene completi le attese più profonde dell’uomo, si qualifica come risposta all’appello divino, e non viceversa. È importante che il nostro popolo colga la giusta gerarchia tra chi chiama e chi è chiamato, in modo che tutti sperimentino di essere stati immeritatamente amati e scelti, e aderiscano con generosità al Dio vivente, senza cadere nella tentazione degli idoli, opera delle proprie mani.

È Gesù che dà origine alla fede e la porta a compimento (Eb 12,2). In lui essa giunge alla sua pienezza e deve essere proclamata fino ai confini della terra. Ogni cristiano dovrebbe avere la consapevolezza di non avere scelto il suo Maestro, ma di essere stato scelto da lui, come emerge nella liturgia battesimale, nella quale egli riconosce di essere chiamato per nome perché conosciuto da sempre. È da riscoprire il battesimo come momento che fonda l’esperienza cristiana e inserisce nel corpo vivente della Chiesa; è l’inizio della vita nuova in Cristo e con i fratelli, nel quale si compie il disegno salvifico di Dio, che ci chiama a vivere come figli nel suo Figlio.

«A Dio che rivela – ricorda la Costituzione Dei Verbum – è dovuta l’obbedienza della fede»,[2] obbedienza che fa dire a Paolo di essere «apostolo per vocazione» (Rm 1,1), e a ogni fedele di essere stato associato senza proprio merito alla Pasqua di Cristo. «Senza la fede è impossibile essere graditi a Dio», ammonisce la Lettera agli Ebrei (11,6), perché la luce è apparsa con chiarezza a squarciare le tenebre dell’uomo e il messaggio evangelico è stato ormai portato a tutti, cosicché tutti abbiano la possibilità di accoglierlo ed essere salvati. L’evangelizzazione, però, non può mai dirsi compiuta: essa rappresenta il compito perenne della Chiesa, inviata ad annunciare la salvezza di Cristo fino ai confini della terra, in ogni luogo e in ogni momento, «opportuno e non opportuno» (2Tim 4,2).

Avendo accolto la chiamata di Dio con la propria adesione di fede, il credente deve ormai fare di essa il principio di tutte le proprie azioni. Dio infatti non accetta di essere un elemento fra i tanti nella vita dell’uomo, altrimenti sarebbe ridotto a oggetto o a idolo, da lui creato e a sua disposizione. «L’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà»[3], è cedimento alla tentazione di farsi un Dio a propria immagine, più accessibile e meno esigente. È il rifiuto dell’esigenza sovrana della fede, che comporta l’uscita da se stessi e l’ingresso nell’Altro da sé. La fede, infatti, impone un cambiamento delle proprie logiche e una continua conversione. Non rende la vita più facile, perché impone un continuo superamento di se stessi; la rende però più bella, perché le conferisce un senso più alto, orientandola  al possesso di beni più grandi. Essa richiede un’adesione totale e non solo formale a Dio, nel «pieno ossequio dell’intelligenza e della volontà»,[4] secondo la nota espressione del Concilio Vaticano I. Non è mai solamente un atto dell’intelletto, ma implica un radicale affidamento e un serio percorso di vita.

Questa densità dell’esperienza di fede, che coinvolge tutta la persona e tutti gli ambiti della sua esistenza, va fatta riscoprire a chi la intende come un’esperienza limitata, “part-time”, poco esigente e quindi poco appagante. Ce lo ricorda papa Francesco nella sua enciclica: la fede è una «luce grande»,[5] che avvolge tutta l’esistenza, non una tra le tante «luci piccole» che la attraversano. La fede sprona l’uomo a superarsi, lo imbarca in un viaggio di cui non conosce la lunghezza, né la pericolosità, né il porto di arrivo. Richiede coraggio, perché significa affidare la propria vita a un Dio che mai abbiamo visto, e che ci ha sedotti pur se mai lo abbiamo incontrato. Serve più coraggio ancora, però, a tenere la vita nelle proprie mani perché, in questo caso, ben più incerto sarà il cammino, nella solitudine che è esito della propria pretesa autosufficienza.

Per non perdersi in questo viaggio, la fede va continuamente alimentata e confermata; essa va impetrata, imitando gli apostoli che chiedono al Signore: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6). La domanda di Gesù: «Il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8) ci serva da monito e ci faccia percepire l’urgenza di vigilare come pastori sul gregge a noi affidato, in modo che la lampada della fede rimanga sempre accesa.

Tentazione del nostro tempo è di vivere la fede in modo individualistico, dimenticando la sua dimensione intrinsecamente ecclesiale. L’opzione per Cristo, associata al rifiuto per la Chiesa, tocca tante persone che, a causa delle esperienze negative che hanno vissuto, o più spesso per il desiderio di una maggiore autonomia, non si sentono parte della comunità dei credenti. Si dimentica così che Cristo è strettamente associato alla sua Sposa e non è possibile incontrarlo prescindendo da essa, perché l’ha unita a sé facendone il suo stesso Corpo. Il ripiegamento nell’individualismo dissocia la fede dalla carità, presumendo che essa possa prescindere dalla comunione fraterna e riducendo inesorabilmente la carità a pratica o sentimento.

La fede, ci insegna il Santo Padre, è una luce su tutta l’esistenza. Essa è il dono portato da Gesù, che permette di conoscere Dio, se stessi e il mondo, tanto che «chi crede, vede».[6] Chi crede vede che l’uomo non è frutto del caso, ma di un disegno d’amore che si dispiega lungo le tappe della storia; vede che l’essere umano, sebbene immerso nel peccato, è capace di rialzarsi per la grazia di Dio e di vivere una vita nuova; vede che Dio non ha abbandonato l’umanità, ma le prepara una dimora nella quale l’ attende e verso la quale l’ accompagna. Chi crede vede che l’amore è l’inizio e il fine di tutte le cose, che non c’è spazio per la tristezza ma si deve, senza perdere tempo, rispondere con la propria vita al Dio che ci ha chiamati per nome, corrispondendo con il nostro amore al suo e portandolo a tutti i fratelli.

 

La fede che porta frutto nella carità

«La fede, senza le opere, è morta» (Gc 2,26). È quanto afferma la Lettera di Giacomo, per il quale le opere di carità hanno una funzione di autenticazione e rivelazione della fede: «Mostrami la tua fede senza le opere e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,18). L’affermazione radicale dell’apostolo Giacomo è solo in apparente contraddizione con quanto asserisce Paolo a proposito della giustificazione in virtù della fede (Gal 3,24; Rm 5,1). Paolo infatti intende negare la presunzione di chi si vanta dell’obbedienza alla legge mosaica, finendo per negare la valenza salvifica della croce di Cristo. Anche Paolo ha ben chiaro, però, che la fede è viva solo se si manifesta nella carità (Gal 5,6), la quale è la via migliore di tutte e senza la quale ogni opera umana diventa sterile e ridondante (1Cor 13).

Lo scontro tra la visione cattolica e quella luterana sul valore da attribuire alle opere, ha costretto a riflettere a lungo sul merito ad esse legato, oltre che sulla dimensione pratica della fede. In occasione della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, cattolici e luterani hanno insieme confessato che «la fede è attiva nell’amore, e per questo motivo il cristiano non può e non deve restare inoperoso».[7] Tuttavia, «la giustificazione non si fonda né si guadagna con tutto ciò che precede e segue nell’uomo il libero dono di fede».[8] Questa storica dichiarazione ha portato a riconoscere, con i luterani, che la giustificazione è gratis data, in quanto non ha il suo presupposto nell’opera dell’uomo e, con i cattolici, che essa è gratum faciens, perché rinnova l’uomo e lo rende giusto, capace ormai di agire conformemente alla volontà di Dio.

La fede e la carità sono le due vie maestre che la Chiesa deve seguire per giungere alla patria celeste, le vie che Cristo stesso ha disposto per essa, inseparabili l’una dall’altra. Chi non porta frutto nella carità mostra quindi di non avere realmente accolto nella fede il Cristo, che trasforma l’uomo e lo rende nuova creatura (2Cor 5,17). «Chi non ama – nota san Giovanni – non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,8). La drammatica possibilità di vivere la fede senza la carità fa riecheggiare nel nostro cuore le dure invettive dei profeti, che si scagliano contro una religiosità fatta di culto ma non di giustizia, di dedizione a Dio con le parole ma non con il cuore, di sacrifici offerti da chi ha dimenticato la misericordia (Os 6,6).

Similmente alla fede, anche la carità ha carattere responsoriale, perché non è frutto dell’iniziativa umana, ma di quella divina, a cui l’uomo deve rispondere con la sua libera adesione. Per questo tutta la vita morale può essere intesa, secondo le parole di Giovanni Paolo II, come «una risposta d’amore»[9] alle iniziative dell’amore divino. Tale dimensione è messa in evidenza nella parabola del Samaritano che, soccorrendo l’uomo incappato nei briganti, ci offre un esempio di chi sa farsi prossimo e ci ricorda, al tempo stesso, che noi per primi siamo stati oggetto della misericordia di Dio. Il Samaritano, suggeriscono i padri, è Cristo stesso, che soccorre l’uomo uscito dal paradiso e ferito dal peccato; è lui che gli si fa vicino, lo cura, lo porta alla locanda e lo affida all’albergatore, immagini della Chiesa alla quale egli consegna ora tutti gli uomini e il salario al suo ritorno. Questo testo evangelico ci rammenta che non siamo stati noi ad amare Dio per primi (1Gv 4,10) e che, raggiunti dal dono di Cristo, nessuno può più vivere né morire per se stesso (Rm 14,7).

L’amore è il comandamento antico e nuovo (1Gv 2,7): antico perché già noto all’Antico Testamento e in qualche forma a tutte le culture; nuovo, però, perché portato a compimento da Cristo, ispirato al suo modello e reso possibile dalla sua grazia. Come la fede illumina i vari aspetti dell’esistenza umana, così l’amore «unifica tutti gli elementi della nostra persona».[10] Esso è fonte di conoscenza, come la tradizione biblica suggerisce sovrapponendo i verbi conoscere e amare. «Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta».[11] «La verità – infatti – va cercata, trovata ed espressa nell’“economia” della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità».[12] Priva di questo riferimento veritativo, che la lega strettamente alla fede e alla ragione, la carità può trasformarsi, secondo l’immagine della Caritas in Veritate, in «un guscio vuoto da riempire arbitrariamente».[13] Allora vi è il dilagare del relativismo, che non solo tradisce le istanze più profonde della fede, conducendo al suo svuotamento e alla sua privatizzazione, ma svilisce la stessa carità, riducendola a sentimentalismo.

I tria munera del kerygma, della diakonia e della leiturgia, vanno compresi come parti dell’unica missione della Chiesa e contribuiscono alla medesima opera di santificazione dell’uomo. L’annuncio della Parola, orientato alla fede, non è mai separato dal servizio della carità, ed entrambi convergono nella liturgia, nella quale la Chiesa esprime la sua fede in Dio Creatore e Redentore, alimentandola all’ascolto della sua Parola, e fa esperienza di carità e di fraterna comunione. Nell’Eucaristia, in particolare, tutta l’esperienza cristiana si riassume e si manifesta. L’Eucaristia, che è pienezza del battesimo e della fede, segna l’incontro con il Dio che nel suo Figlio ama l’uomo fino al dono di sé, e ci spinge a fare altrettanto sul suo esempio. La comunione al Corpo e al Sangue di Cristo segnano in modo eminente la sintesi di fede e carità, facendo del fedele un membro del suo Corpo, che è la Chiesa, e spingendolo a conformare se stesso, le sue azioni e addirittura il suo pensiero, a quelli di Gesù (Fil 2,5).

 

La carità come segno dell’amore ricevuto

Se la fede, per essere autentica, deve fiorire nella carità, dobbiamo ugualmente affermare che la carità è piena quando è espressione della fede, quando non è mera filantropia, ma si rende segno dell’amore ricevuto da Dio. Come i miracoli compiuti da Gesù e poi dagli apostoli, i gesti di carità dei credenti non esauriscono il loro significato nella solidarietà umana che veicolano, ma sono dei segni – secondo l’espressione usata dall’evangelista Giovanni –,  perché rimandano a realtà più alte e rappresentano un appello alla fede. Bisogna allora guardarsi dalla tentazione di svolgere l’opera caritativa senza avvertire che essa ha una forte portata evangelizzante, o senza avere l’anelito di portare Cristo a coloro che vengono soccorsi. «L’amore è gratuito – insegna Benedetto XVI nella sua prima enciclica – e non viene esercitato per raggiungere altri scopi, ma questo non significa che l’azione caritativa della Chiesa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte».[14] Al contrario, la fede ci spinge sempre a prendere il largo e a gettare le reti per la pesca, le reti della Parola e della carità; non al fine di ingrandire le file della Chiesa con un intento proselitistico, ma per introdurre quante più persone nel regno portato da Cristo.

«Il servizio della carità è – dunque – una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed espressione irrinunciabile della sua stessa essenza».[15] Non essendo un semplice dato psicologico, ma una realtà  ontologica che ultimamente coincide con Dio stesso, anche la carità, come la fede, possiede un’intrinseca valenza comunitaria. È la Chiesa, e non i singoli, il vero soggetto delle varie azioni caritative svolte dai credenti o da associazioni ecclesiali di varia natura. Quando essi si mettono a servizio dei fratelli, infatti, lo fanno sempre a nome della Chiesa e in comunione con essa che in quel momento rappresentano.

In tutte queste forme di assistenza, la Chiesa manifesta la sua intima natura, come sottolinea fin dal titolo la Lettera apostolica Motu proprio di Benedetto XVI, che insieme vogliamo meditare. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri», afferma Gesù (Gv13,35). L’amore vicendevole dei discepoli manifesta quindi la Chiesa nella sua intima natura di comunione tra gli uomini e con Dio. è l’amore – secondo la geniale intuizione di S. Teresa di Lisieux – che permette a tutte le componenti della Chiesa di svolgere la loro funzione; esso è come il cuore, che irrora la linfa vitale a tutte le membra del corpo.

Sottolineando il carattere ecclesiale dell’attività caritativa, la Lettera apostolica Intima Ecclesiae Natura attribuisce al Vescovo un compito di indirizzo, coordinamento e vigilanza. Egli, che è «guida e primo responsabile di tale servizio»,[16] «provveda affinché i fedeli siano istruiti, esortati ed opportunamente aiutati a praticare tutte le opere di misericordia, sia personalmente nelle circostanze concrete della loro vita, sia partecipando alle diverse forme organizzate di carità».[17]

Ci soccorra il Signore che, affidandoci una responsabilità così grande, non mancherà di indicarci la via da percorrere per condurre a lui tutto il suo gregge, senza che alcuno si perda. «Rendila perfetta nell’amore», non ci stanchiamo di chiedere per la Chiesa nella liturgia eucaristica, affinché raggiunga la perfetta comunione con Dio e sia in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento della carità che proviene da lui.

Maria, che per prima ha creduto e il cui sì al disegno di Dio è diventato disponibilità incondizionata alla sua volontà, sostenga la nostra fede e ci mostri la via della carità, che le nostre Chiese devono percorrere per tenere unite testimonianza ed evangelizzazione, promozione umana e annuncio del Vangelo di Cristo, che dell’uomo è origine e compimento.

 

                                                                               Cardinale Angelo Bagnasco

                                                                                  Arcivescovo di Genova

                                                                   Presidente della Conferenza Episcopale Italiana

                                                                               Vice Presidente del CCEE



[1] Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, La Chiesa e Internet, n.9.

P.L. Berger (The Social Reality of Religion, Londra, 1969) parla per primo di “supremercato delle religioni”, impiegando la metafora per descrivere la situazione religiosa del pensiero ellenistico, con l’intenzione di suggerire una certa analogia con il pluralismo religioso del nostro tempo.

[2] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum, n.5.

[3] Francesco, Lumen Fidei, n.13.

[4] Concilio Vaticano I, Dei Filius, cap.3.

[5] Francesco, Lumen Fidei, n.3.

[6] Francesco, Lumen Fidei, n.1.

[7] Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione fra Chiesa cattolica e luterana, n.25.

[8] Ib.

[9] Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, n.10.

[10] Francesco, Lumen Fidei, n.26.

[11] Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n.3.

[12] Ib., n.2.

[13] Ib., n.3.

[14] Benedetto XVI, Deus Caritas est, n.31.

[15] Benedetto XVI, Intima Ecclesiae Natura, Proemio.

[16] Ib., IV,1.

[17] Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi, n.195.

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